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La domanda nostra, la domanda di Mahmood

«Che ci faccio qui» si sarà forse chiesto anche Alessandro Mahmoud, in arte Mahmood, passato il primo momento di felicità per aver vinto il 69° Festival di Sanremo. Alessandro, come si sa, è nato a Milano nel 1992 – nel periodo della fine della Prima Repubblica, di Tangentopoli, dell’esplosione della Lega, delle stragi di mafia, delle uccisioni di Falcone e Borsellino – da madre italiana, sarda, e padre egiziano. Cresce nella periferia milanese, tra le difficoltà legate all’abbandono del padre, con cui non ha più rapporti, e la tenacia della madre che lo sostiene nella passione per il canto.

I giornali ci raccontano di un giovane che cresce con una doppia “appartenenza”: non quella italiana ed egiziana, ma quella di un ragazzo della periferia italiana, che vuole farcela e che allo stesso tempo intrattiene un forte legame con la cultura e le tradizioni della terra della madre, che torna anche come fonte di ispirazione nei suoi brani. La sua nostalgia delle origini è per un’isola dai forti contenuti identitari e simbolici e l’Egitto non esiste per il ragazzo se non come nome del luogo da cui arrivava un padre di cui non pensa un gran bene, come canta nel brano che ha vinto a Sanremo.

In molti altri luoghi, Mahmood sarebbe diventato un simbolo del riscatto della buona volontà e del merito; in un’Europa insanguinata dalle stragi dell’Isis ad opera di giovani che odiano il mondo in cui sono cresciuti avrebbe potuto essere orgogliosamente indicato come simbolo di una integrazione avvenuta e della possibilità di affermarsi in un mondo difficile. Invece, niente di tutto questo.

Lo spettacolo, specchio delle bellezze e delle contraddizioni italiche dal dopoguerra ad oggi, diventa occasione non per unire, come qualcuno auspica, ma per propagandare e sottolineare un clima cupo e oscuro, che si alimenta di rancori, paure, preoccupazioni. Basta infatti un tweet sornione di Salvini per trasformare quella che si potrebbe considerare una bella favola nell’ennesima occasione per scatenare sui social odio e ottusità.

L’occasione, d’altronde, è ghiotta e gli strateghi della comunicazione non possono lasciarsela sfuggire. Così Mahmood, giovane, cantante, milanese, viene trattato come un invasore, un nemico, che si intrufola nell’Italia del «prima gli italiani»; si ritrova a dover difendere la sua identità personale, il suo sentirsi italiano, il legame con la Sardegna.

Conclusa la serata finale del famoso festival, in questo Paese che fa morire gli immigrati in mare, che vuole chiudere i porti e i centri di accoglienza, quasi senza accorgercene siamo andati oltre il voler negare l’ingresso agli stranieri nel nostro paese, inventando un nemico “interno” non riconosciuto come italiano.

Di Maio, dal canto suo, ricorre alla teoria del complotto, che oppone la giuria popolare a quella “radical chic”, che avrebbe ribaltato il voto della gara. La proposta è di quelle che arrivano diritte al cuore dei populisti: bisogna fare scegliere al popolo che vota da casa.

Nella democrazia della piattaforma Rousseau, il voto alla canzone migliore può essere parificato a un risultato elettorale. Chi critica, strumentalizza. Il bue dice cornuto all’asino. Eppure, la posizione di Di Maio serve anche a Salvini, che nei giorni successivi, forse anche a causa di alcuni “trend” non troppo positivi sui social, corregge lievemente il tiro, accodandosi alla linea che oppone “popolo” a “nemici” del governo, quindi del popolo. Tanto ormai, quello che si voleva dire, lo si è detto. Si è propagandata ai quattro venti, in tv, sui giornali e sui social l’idea di un’“identità pura” (che sostituisce eufemisticamente la “razza pura”). Un’idea che può solo riportare alla cronaca di oggi paradossi e orrori del passato, generando nuove ghettizzazioni ed esclusioni.

Come capita ai meridionali e ai sardi che rischiano di essere relegati in un’Italia di serie B per quella secessione subdola che va sotto il nome di autonomia fiscale. Quello che non era riuscito alla lega di Bossi, Miglio e del giovane Salvini riesce adesso al Salvini maturo e a Di Maio, mentre nella confusione generale nasce e cresce una nuova casta, magari meno “chic”, ma non per questo meno rapace.

Così si generano anche sentimenti di diffidenza e ostilità nei confronti di un’Italia che esclude e separa in nome di un’identità incontaminata. Mentre invece sono proprio i Mahmood che, magari senza volerlo, continuano a parlarci di un bisogno di identità e di appartenenza aperte, mobili, inclusive. Del bisogno di chiedersi e capire «Che ci faccio qui».

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