Di cosa siamo fatti? Della stessa materia dei sogni, come scriveva l’immortale Bardo di Stratford-upon-Avon o siamo forse il frutto della nostra memoria? Il nostro vissuto somiglia ad un disordinato resoconto narrativo fatto di cicatrici e gioie, lacrime e felicità? “Idda” (Einaudi), il nuovo romanzo di Michela Marzano, ruota attorno a queste domande, raccontando la vicenda di Alessandra, alle prese con la malattia della suocera, Annie, e le difficoltà di Pierre, il marito che fatica ad accettare la drammaticità della situazione.
La normalità viene stravolta dalla demenza senile, Annie viene ricoverata in una struttura specializzata ma sarà proprio il mutare degli eventi, lo stravolgersi dei rapporti a creare un dialogo fra le due donne, aggirando le norme sociali, confrontandosi alla pari in cerca di risposte.
Nel nuovo romanzo della filosofa, accademica e saggista romana, la malattia va intesa come una scintilla che spingerà Alessandra - una donna affermata nel mondo universitario francese, una moglie affettuosa che rifiuta la maternità - ad inoltrarsi nei labirinti della memoria danneggiata di Annie, spingendola a fare i conti con i propri eventi dolorosi ovvero la morte violenta della madre, le responsabilità paterne nonché il legame mai interrotto con la terra salentina che fatalmente esploderà in una tranquilla giornata parigina, liberando anche la scrittura dell’autrice. Alessandra - ovvero “Idda” nel dialetto salentino (in questo identico al siciliano) – tornerà sui propri passi, dinanzi a quei fantasmi che aveva sperato di poter dimenticare, in un grande racconto che affronta il concetto della rimozione con una prosa fluida che si rivolge a tutti i lettori.
Scrivendo “Idda” lei attinge ad una radice dialettale che non ha nulla di folkloristico. Come mai questa scelta?
«Nel momento in cui ho assegnato ad Alessandra origini salentine, ho compreso che proprio il suo dialetto, natìo ma dimenticato, le avrebbe permesso di riaprire le porte del proprio passato forzatamente rimosso. Un’epifania che accade in una scena ben precisa. Quel giorno sta facendo lezione con i propri studenti, spiegando il funzionamento delle foglie e delle piante, finché, al momento di pronunciare la parola “uva” in francese, lei pronuncerà il termine strettamente dialettale, una parola che faceva parte della sua infanzia, improvvisamente tornata sulle labbra. Ciò le provocherà quasi uno shock emotivo, riportandola fra il casale e gli ulivi, riaprendo il flusso dei ricordi, spingendola a ritornare alla propria storia, alle proprie radici.
Il vero protagonista del libro è la memoria?
«Credo sia così. È una verità che affiora lentamente inoltrandosi nelle peripezie dei personaggi, nel modo aggrovigliato con cui gestiamo il nostro vissuto, cercando di dominarlo e addomesticarlo. Finché qualcosa, un’immagine, una lettera o una parola fuori posto, saltano fuori all’improvviso e ci spingono ad agire, scoperchiando tutto».
Oggi possiamo far conto su una molteplicità di supporti analogici eppure l’ossessione di perdere la memoria ci terrorizza. Cosa significa?
«Perdere la memoria significa perdere il controllo, diventare fragili e vulnerabili e nell’epoca contemporanea, costantemente alla ricerca dell’efficienza e della performance, perdere il ritmo, saltare l’appello non è ammissibile. Per questo motivo l’immagine della demenza, il morbo di Alzheimer, ci terrorizza tanto. A ciò si aggiunge il fatto che quando ci raccontiamo, lo facciamo in modo narrativo, noi siamo il frutto di una serie di esperienze e ricordi concatenati e dimenticare qualcosa mette in crisi il nostro equilibrio identitario».
Ma cosa rimane di noi, oltre la memoria?
«L’essenziale. Alessandra si recherà da una dottoressa per affrontare le sue paure, scoprendo che nonostante la perdita della memoria rimangono sempre dei residui di sé e ciò che conta di più è l’affettività, l’amore».
Esiste un diritto al decadimento?
«Dinanzi alla malattia è logico chiedersi se ci sia concesso il diritto di lasciarci andare. Soltanto nel momento in cui accettiamo che tutto ciò possa accadere, apriamo la porta a nuove possibilità».
Alessandra ha anche un rapporto complicato con la maternità...
«La sola idea che possa essere una madre carente, non abbastanza amorevole, la mette in crisi. Diventare genitori è un atto di generosità ma, al contempo, le proiezioni sui propri figli possono essere molto gravose, lo sappiamo».
Ammettere la fallibilità è necessario?
«Sì. Finché non ammettiamo limiti o imperfezioni, non siamo in grado di dare un senso di pienezza alla nostra vita».
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