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'Elevation', nell'ultima opera di Stephen King un accenno di resistenza al "trumpismo"

Domanda: è il caso di prendersi un poco di spazio e di tempo per l'ultimo libro di Stephen King, che non è davvero un romanzo ma piuttosto un racconto lungo, e che arriva in libreria a pochissima distanza da uno dei suoi classici “romanzoni” bestseller? La risposta è sì. Perché dalle pagine di “Elevation” – che sono 194, ma di formato piccolo – possiamo tirare fuori una serie di cose piuttosto interessanti. Che riguardano Stephen King come macchina da narrativa, certamente, ma che riguardano anche i nostri tempi grami. E il fatto che – una volta di più – è bello poter demolire lo stereotipo del “genere” in cui si vuole murare la produzione di King.

Eh no, lo Zio (come lo chiamiamo noi, suoi fan perdutamente soggiogati) scrive di soprannaturale ed è stato inventore di alcune delle più riuscite storie horror degli ultimi 45 anni, ma questo non vuol dire che non sia uno scrittore “vero”, con gli occhi e il cuore ben sintonizzati sul mondo reale (posto che esista, viene da dire: chi legge King sa bene che la sua idea – e ditemi se non è letteratura, questa – è di una trama lucente di buio che sta oltre e sotto, in qualche modo, quella che condividiamo e definiamo convenzionalmente “realtà”: le sue storie, semplicemente, vengono da lì).

Ora, rispetto alla produzione torrenziale a cui siamo abituati, bei tomi di centinaia di pagine fitte, “Elevation” (Sperling & Kupfer, con illustrazioni di M. E. Geyer, traduzione di L. Briasco) sembra una piccola cosa: un racconto lungo, appunto. Che ha in esergo un riferimento preciso: «Pensando a Richard Matheson», uno dei più straordinari scrittori e sceneggiatori del fantastico, morto nel 2013. E il pensiero è più che preciso, dal momento che la storia di “Elevation” sembra ispirata a un celebre libro di Matheson, “Tre millimetri al giorno”, in cui il protagonista, in seguito all'esposizione a radiazioni, comincia a rimpicciolire, fino letteralmente a sparire, inghiottito dalla sua stessa casa divenuta un luogo spaventoso abitato da esseri come un gigantesco ragno. Diversamente mathesoniano, il protagonista di “Elevation”, Scott Carey, invece perde... peso. Etti, poi chili ogni giorno, ma senza modificare il suo aspetto. Anzi, con lo stranissimo fenomeno per cui tutto ciò che prende o porta con sé, abiti inclusi, perde il proprio peso.

Ma l'analogia è tutta qui. Perché, mentre l'esperienza del rimpicciolirsi diventa, per il protagonista di Matheson, uno spaesamento e una guerra col quotidiano, per il nostro Scott l'esperienza del perdere peso si coniuga con la scoperta di una nuova socialità. E questo è il nodo che vorrei rilevare, perché mi sembra che negli ultimi lavori dello Zio sia questo un tema elettivo, e abbia un valore sinceramente politico, oltre che poetico. Scott, in tutto l'arco della sua vicenda, ha modo di intervenire in un piccolo grande “caso” che riguarda la comunità di Castle Rock – cittadina immaginaria in cui sono ambientate tante vicende kinghiane – ovvero la presenza di una coppia di donne sposate tra loro e che gestiscono un ristorante vegetariano.

Nell'universo maschilista, omofobo e “carnivoro” di certa America profonda che – sappiamo – ha fornito allo Zio negli anni, e ben prima dell'avvento di Trump, infiniti protagonisti (gran parte dei suoi “cattivi”, dico quelli umani, perché non c'è Male che venga dallo spazio, dalle profondità della Terra, dal passato o da qualsivoglia altra dimensione che non si coniughi con il male che portiamo dentro, e questa è regola invariabile nel mondo narrativo kinghiano), questa è una dichiarazione di principio. Scott, invece di rinchiudersi nel buio della sua strana sindrome, si apre agli altri, e riesce a compiere un piccolo miracolo: trasformare la brava gente repubblicana e puritana di Castle Rock da comunità potenzialmente ottusa, omofoba e respingente in una comunità che accoglie e fa spazio. E a creare una sorta di piccolo cerchio magico di amici – le due donne “salvate” da lui, Deirdre e Missy, il medico Bob e soprattutto la di lui moglie Myra – che accompagneranno la sua “elevation”.

Come era accaduto ai personaggi del recentissimo, fortunato “The Outsider”, bestseller di appena pochi mesi fa: per quante ferite e squarci si possano aprire nelle vite (immerse nella violenza quotidiana, a cui King aggiunge solo la sua dose soprannaturale), è sempre dagli altri che ci arriva la salvezza, la riparazione. E fioriture di amicizie impensabili, di legami balsamici che vanno oltre le convenzioni e le consuetudini sono sempre state per lo Zio – ma ora di più – l'altra faccia dell'orrore, la risposta tutta umana all'orrore tutto soprannaturale. Tanto più in questi tempi, che King critica apertamente e con preoccupazione, ben oltre i suoi romanzi (ma c'è anche in “Elevation” un fuggevole riferimento al reale, al mondo di Trump – chiamato con nome e cognome – che nulla ha da invidiare ai mondi dell'orrore costruiti sulla pura immaginazione).

Sì, forse il messaggio è questo: eleviamoci da questo miserando momento in cui tutto sembra chiudersi, e i muri, dopo tutta la fatica che abbiamo fatto per abbatterli, tornano su. Perdiamo il peso, abbandoniamo la zavorra e cerchiamo di unirci, farci forza a vicenda, sostenerci, farci comunità. Opporci all’orrore (ché i mostri non sono solo quelli che vediamo al cinema). Allora, sì, splenderemo.

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