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Baglioni in Sicilia e Calabria si racconta: "Quel contratto firmato da mio padre..."

Claudio Baglioni

Ha messo la musica al centro. Sempre. In 67 anni di vita, cinquanta di carriera, tenendo per mano epoche diverse perché adesso è la vita e la vita è adesso. Un po' architetto dell'amore senza comprimerlo in spazi definiti, un po' dirottatore di emozioni perché «di questo la gente ha bisogno».

Dal centro “Al centro”, lo show che celebra la carriera straordinaria di Claudio Baglioni che dopo Sanremo, che è stato e forse non sarà più («Non rispondo a domande sul Festival»), riparte per un tour di concerti - termine riduttivo per uno spettacolo colossale - che domani e sabato toccherà di nuovo Acireale (dopo le tre date di novembre) mentre martedì 26 e mercoledì 27 sarà al PalaPentimete di Reggio Calabria.

Cinquant'anni tutti da sentire, sessantasette anni e non sentirli. Numeri che danno più orgoglio o fanno più paura perché il traguardo di una carriera è vicino? Una cosa è certa: quando qualcuno scriverà la storia della musica italiana Baglioni avrà un posto d'eccellenza...

«Danno orgoglio e fanno paura. In misura diseguale, che varia a seconda del momento. Danno orgoglio, per la strada fatta e per quello - tantissimo - che le persone che l'hanno divisa con me mi hanno dato in tutti questi anni. Fanno paura, perché, vista da qui, quella strada è incredibile - letteralmente - e per la consapevolezza che non sarà possibile restituire , in termini di affetto, vicinanza ed empatia, tutto ciò che chi mi ha seguito e mi segue mi ha dato e mi dà. Personalmente non ho le tue certezze. Mi basta sapere di riuscire a dire e dare quello che sento di dover dire e poter dare e di riuscire, attraverso l'arte piccola e breve della canzone, a suscitare pensieri ed emozioni che allontanino le nubi e rendano il presente un po' più leggero».

Ma Claudio ha mai pensato al finale?

«Ho deciso il finale tantissime volte e l'ho immaginato altrettante, il “problema” è che poi arriva sempre un bis».

Trentatré canzoni, pescate non a sorte tra le 400 di una carriera infinita. Mica facile. Ma cos'è “Al Centro”?

«È un concerto che si muove in ordine cronologico, seguendo la disposizione dei brani nei rispettivi album. È una fabbrica di visioni e sensazioni di tre ore, il resto sono pagine di viaggio. Alla fine del tour avremo incontrato circa 400mila persone».

Perché la cosa più importante durante un concerto è...?

«Regalare stupore. Le canzoni forse sono questo, rubo un pezzetto di vita alle persone e provo a ridarglielo magari dentro un cofanetto colorato».

Ho letto che da piccolo Claudio voleva diventare un geniale inventore, per aiutare la gente a vivere meglio. Non sarà diventato un inventore, ma certamente ha aiutato la gente a viver meglio. In tanti dicono sia l'artista dell'amore e il cantautorato impegnato ti ha talvolta denigrato. Ma Baglioni è molto di più, è uno sperimentatore, uno capace di tenere insieme, anche nella stessa canzone, mondi musicali che partono da punti diversi.

«Diciamo che l'ambizione era quella. Non sta a me dire se ci sono riuscito o no, anche se confesso che conforta, dopo tutto questo tempo, sentirsi ancora circondato dalla stima, dall'affetto e dalla passione di così tante persone. Stima, affetto e passione che, per fortuna, non accennano a scemare. Anzi. Se canto l'amore, è perché credo sia l'energia più grande che esiste in natura: un miracolo che rende capaci di piccoli e grandi miracoli. Negli anni 70 l'amore era un sentimento “sospetto”. Forse perché lo si riteneva un fatto solo privato e personale, e non tutti ne coglievano la portata sociale e universale. Oggi abbiamo capito che non è così. E tutti riconoscono l'importanza di valori come la solidarietà. Personalmente credo che - come ogni grande energia (acqua, fuoco, vento) - l'amore possa anche travolgere e fare male. Per questo bisogna “maneggiarlo con cura”. Più un'energia è grande e potente, più l'uomo dev'essere saggio, equilibrato e prudente».

Sanremo è alle spalle, alla fine del tour mancano poche tappe. Non è un mistero che sia in cantiere un nuovo album di inediti. Cosa dobbiamo aspettarci? Quale dei tanti Baglioni conosciuti andrà in scena?

«Nessuno. Andrà in scena un nuovo Baglioni. Nuovi temi, nuove melodie, nuove armonie, nuovi testi, nuovi arrangiamenti, nuove sonorità. Non, semplicemente, un “nuovo album”, dunque, ma un “album nuovo”. Così come ho cercato di fare in ogni lavoro precedente, cercando - come tu dicevi - di tenere insieme mondi musicali diversi, proprio per il bisogno di dar vita a mondi sempre nuovi. Ma anche perché - dato che, giorno dopo giorno, ognuno di noi cambia - cambiare è l'unico modo per rimanere autenticamente se stessi».

Ma un giorno qualcuno ti ha rimproverato di voler cambiare troppo?

«È vero - sorride - è successo proprio qui in Sicilia, a Palermo. Ma tanto tempo fa. Durante un concerto avevo cantato una versione di “Questo piccolo grande amore” riveduta. Alla fine una signora mi ha affrontato e mi ha detto: “Non devi permetterti di cambiare questa canzone, perché questa canzone è nostra, non è più tua”».

Una curiosità: il brano a cui sei più legato e quello che fai fatica ad accettare.

«Per molti anni non ho voluto bene a “Sabato pomeriggio”. Non era venuta fuori come l'avevo immaginata all'inizio. Ma anche con “Bolero”, testo che facevo fatica a imparare a memoria. Invece ancora oggi non faccio fatica a cantare “Strada facendo” e “Mille giorni di te e di me”».

Tappe ad Acireale e Reggio Calabria. Il Sud del Sud, dove con “O' Scià”, il festival di Lampedusa purtroppo interrotto nel 2013, ha scritto una pagina straordinaria di solidarietà sul tema dell'immigrazione. Oggi l'approccio è cambiato, ma sa tanto di sconfitta.

«Personalmente non lo credo. Credo che sconfitta sarebbe rinunciare a ragionare di queste cose. Cosa che bisogna assolutamente evitare di fare. Anche perché non è che, se smettiamo di parlare di un problema, quel problema scompare. Non solo resta, ma cresce sempre di più, fino a diventare ingovernabile. Le migrazioni sono nate con l'uomo e si fermeranno solo quando l'uomo scomparirà. In alcune epoche sono “fisiologiche”, in altre “anomale”. Com'è successo, ad esempio, agli inizi del Novecento, quando i migranti italiani hanno invaso Nord e Sud America. Le anomalie di oggi sono l'effetto della spaventosa crescita delle disuguaglianze: 26 persone posseggono una ricchezza equivalente a quella dei 3,7 miliardi di persone che abitano l'emisfero sud del pianeta. Una disuguaglianza insostenibile. Fino a quando Europa e Occidente non interverranno per ridurre e calmierare questa disuguaglianza, la “febbre” non scenderà e le tensioni cresceranno. Se si vuole bloccare un fiume, si può provare a farlo alla sorgente, quando è ancora un rigagnolo, ma è impossibile riuscirci a valle, soprattutto durante una piena. Impossibile e folle».

La sliding doors della tua carriera, qual è il crocevia dove tutto è cambiato?

«Il mio “Big Bang” è stato a Milano, alla fine degli anni Sessanta: non ero ancora maggiorenne. Ero andato per un provino per la Ricordi. Rispetto alla periferia dalla quale venivo, Milano sembrava un altro mondo. E lo era. Mi fece un'impressione incredibile. Ero venuto per registrare tre canzoni, ma ne realizzammo solo una: “Annabel Lee”, un brano ispirato a una famosa poesia di Edgar Allan Poe. Credo ci sia ancora una “lacca” in qualche archivio. Le altre due canzoni, invece, non sono mai state pubblicate. Senza contare che i “turnisti” che dovevano suonare per me non ne avevano molta voglia. Non gli piacevano le mie canzoni. E io ancora meno. Un inizio deprimente e irritante. Un colpo così duro, che reagii in modo ancora più duro. Giurai che non sarebbe finita lì: avrei dimostrato a tutti chi ero. Il contratto arrivò qualche tempo dopo. Ma con la Rca. E, visto che ero minorenne, lo firmò mio papà. Il resto è noto. Credo, però, che se non fosse stato per quella prima urticante delusione, forse non avrei avuto la grinta giusta per reagire. Manzonianamente, da un male era nato un bene maggiore di quello sperato. Una fortuna. Altrimenti la mia vita avrebbe preso un'altra piega. Anche se non riesco davvero a immaginare quale».

Mamma sarta, papà maresciallo dei carabinieri. Infanzia in un quartiere popolare di Roma. Quanto è difficile non montarsi la testa quando di colpo tutto ti travolge?

«Impossibile non montarsi la testa. Ho visto colleghi arrivare, addirittura, a benedire le folle. Il successo gioca brutti scherzi. Difficile resistere alle sue seduzioni e alla sua forza alienante. Se non sono “impazzito” anch'io, lo devo ai miei genitori - semplici, equilibrati, saggi - che hanno seminato in me le loro fondamentali virtù».

La sensazione è che nella musica italiana di oggi si contino i fake-artist. Ci vuole talento a costruirsi e c'è arte negli artefatti?

«Se l'artefatto è fatto ad arte, un minimo di arte c'è. Al di là dei giochi di parole, il problema - non solo nella musica e non solo nel nostro Paese - è che, troppo spesso, l'arte evapora e rimane solo il “fatto”. Vale a dire l'arida meccanica della “costruzione”, che sacrifica - o rinuncia a - ciò che di artistico dovrebbe qualificare la creatività, riducendola a un fare privo di poesia. La differenza è proprio nel talento. In teoria, il seme dal quale tutto dovrebbe nascere. In pratica, un elemento sempre meno necessario e sempre più trascurato, dal momento che l'industria dello show-biz tende a surrogarlo con le tecnologie. È evidente, però che, senza arte, l'arte non può essere tale. Qualunque cosa sia, è destinata a vita assai breve, dal momento che rinuncia in partenza al salvacondotto verso l'immortalità concesso solamente a ciò che arte lo è davvero».

L'immortalità è domani e sabato ad Acireale.

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