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Massimo Ranieri al Rendano di Cosenza: "Il mio Gabbiano tra Cechov e Aznavour"

La rassegna “L'AltroTeatro” del Rendano di Cosenza chiuderà una stagione di grandi successi questa sera (ore 20.30), con “Il gabbiano (à ma mère)”, nuova versione del capolavoro di Anton Cechov, scritta e diretta da Giancarlo Sepe e interpretata da Massimo Ranieri, che poi da domani a domenica sarà anche al teatro Vittorio Emanuele di Messina.

In un allestimento che alterna la prosa - portata agli anni Cinquanta del Novecento - all'esecuzione di brani indimenticabili della grande canzone francese, rivive la storia del giovane scrittore incompreso Kostya Treplev (il rossanese Francesco Jacopo Provenzano), delle donne della sua vita, l'amata Nina (Federica Stefanelli) e la madre Irina (Caterina Vertova) e del rapporto col drammaturgo Boris Trigorin (Pino Tufillaro) che sconvolgerà la sua già fragile esistenza. I testi delle canzoni, riarrangiati da Davide Mastrogiovanni e Harmonia Team, sono eseguiti da Ranieri, che sulla scena è Kostya da anziano. Nel cast anche Martina Grilli nei panni di Mascia. Abbiamo raggiunto il poliedrico artista napoletano per saperne di più.

Lo spettacolo è una rilettura particolare del capolavoro di Cechov. Qual è la funzione del Kostya maturo all'interno della vicenda?

«Chi ha letto “Il Gabbiano” e conosce il teatro di Sepe sa che lui sfascia tutto per poi rimontare. Il testo c'è, ma soprattutto c'è Kostya giovane visto da Kostya vecchio, perché si apre con me, seduto su una poltrona, che dico: parto per un lungo viaggio e forse non tornerò mai più. È quindi uno spettacolo in flashback, in cui la gente assiste al dramma originale attraverso la mia mente, vedendo quello che è accaduto 70 anni prima. Io sono Kostya e al contempo Massimo Ranieri, e tutto si svolge nel camerino di un teatro, dove lui è pronto ad andare in scena e alla fine invita la madre ad andare via perché deve salire sul palco. È una rilettura molto interessante, e racconta una storia che può essere di tutti; di amori non corrisposti, dal momento che il protagonista non è amato né da Nina, né dalla madre. È una situazione lacerante in cui chiunque può riconoscersi».

Lei esegue in scena pietre miliari della canzone francese, come “Et maintenant” di Gilbert Becaud e “Avec le temps” di Léo Ferré. Qual è la loro funzione all'interno della narrazione cechoviana?

«Per giudicare la pièce al suo debutto Cechov chiamò il critico musicale Marcel, che rileggendo il testo gli disse che non aveva ritmo, né musica. Partendo da questa osservazione, ho chiesto a Sepe di farmi cantare e inserire nello spettacolo le canzoni per far diventare il testo anche musica. Dal momento che in russo non potevo cantare e la lingua dominante nell'Europa di quel periodo era il francese, abbiamo utilizzato il repertorio d'oltralpe. Non conoscendo brani del primo Novecento, si è pensato di ambientare “Il Gabbiano” in un'epoca atemporale come gli anni 50, perfetta per quella musica. Visto che il testo parla d'amore non corrisposto abbiamo scelto alcune canzoni meravigliose, interpretate da artisti immensi: Brel, Aznavour, Becaud, Piaf e Ferrè. È come se quei brani fossero sempre stati parte di questo particolare “Gabbiano”».

Qual era la cifra stilistica che distingueva Cechov da altri drammaturghi del suo tempo?

«Cechov è il drammaturgo russo che amo di più e non è un caso che Tolstoj fu un suo protettore artistico, l'unico a vedere del genio in quel ragazzo di ventiquattro anni e a difenderlo. Infatti ci sono immagini di Cechov a casa sua che lo ascolta. Sapeva descrivere la borghesia del suo tempo impegnata in discorsi inconcludenti, e non a caso le scene dei suoi scritti - “Il giardino dei ciliegi”, “Zio Vanja” e “Tre sorelle” - si svolgono sempre in un salotto dove tutti si parlano addosso e non succede nulla: mai niente di nuovo che arrivi da fuori e mai nulla che esca dal dentro».

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