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De Chirico e Savinio i miti rifanno il mito

Così simili e così diversi. Definizione fin troppo facile, ma irrinunciabile. La mostra “De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna”, organizzata dalla Fondazione Magnani Rocca, curata da Alice Ensabella e Stefano Roffi e aperta fino al 30 giugno nella straordinaria Villa dei Capolavori di Mamiamo di Traversetolo (Parma), punta decisamente sullo sviluppo di questo doppio binario.

Tralasciato ogni ordine cronologico, le opere sono presentate per temi comuni, che poi i due fratelli hanno sempre sviluppato a modo proprio, anche nel periodo in cui erano più vicini e solidali, come nel soggiorno parigino, tanto più quando malintesi e divergenze separarono le loro strade, pur con un fondo immutato di solidarietà. Giorgio de Chirico (Volo, Grecia, 1888 - Roma, 1978) e il fratello Andrea (in arte Alberto Savinio, Atene, 1891 - Roma, 1952), figli di un barone toscano di origine siciliana e di una madre ligure, veri e propri Dioscuri della cultura europea, hanno permeato della loro arte lo scorso secolo, grazie alla “metafisica”, l'idea pittorica e letteraria che ha reso famosissimo il fratello maggiore ma che appare prima negli scritti del minore, con brani che sembrano preludere ai famosi manichini-persone di Giorgio, ancor prima che fossero dipinti.

Un legame con il mito che risale all'infanzia in Grecia e agli studi in Germania (come Pirandello, guarda caso), sulle pagine di Nietzsche e di altri filosofi legati alla commistione tra antichità e tempi moderni. De Chirico lo ha fatto diventare rappresentazione di una società alienata e priva di effettiva comunicazione tra gli individui, usando piazze piene di solitudine e “silenzi” stranianti, oppure immagini di eroi non più in grado di esserlo. Savinio (più multiforme: musicista, scrittore, anche critico teatrale, arriva alla pittura solo a 35 anni) ha lavorato criticamente sugli stessi temi con straordinari effetti visivi di decontestualizzazione, passati al filtro di un'ironia acre, impossibilitata a prendere sul serio un'umanità che, per un periodo creativo, arriva a ritrarre con teste prima piccolissime rispetto al corpo e poi zoomorfe, con un effetto grottesco e irriverente (in mostra c'è un' “Annunciazione” in cui la Madonna è dipinta con la testa di pellicano, ma non è blasfemia, solo necessità espressiva).

Non è un caso che, dopo un'iniziale adesione, de Chirico ripudiò il surrealismo e ne fu ripudiato, mentre Savinio continuò a rimanere nel movimento, sempre apprezzato da Breton. Sono caratteristiche che ritroviamo nelle diverse sezioni della mostra: il mito; la Grecia, il luogo dell'infanzia; la città, il luogo della mitologia moderna; gli abitanti della città; cavalli, centauri e gladiatori; la natura morta; la ritrattistica; il teatro (scene e costumi).

Con opere che appaiono unite da un comune effetto di spaesamento, come se il ricorrere agli archetipi non trovasse mai una possibilità concreta di applicazione, come se l'umanità moderna fosse condannata a uno sbalzo temporale che non le consente più di essere concretamente legata alla vita piena. Tutti temi concettuali, rimasti sempre presenti in de Chirico, anche quando un evidente ritorno alla figurazione sembra prendere il sopravvento, senza tuttavia intaccare in alcun modo le riflessioni partite da quella “metafisica” iniziale, rilanciata in tarda età da una rivisitazione ai temi che gli avevano dato la celebrità, a cominciare dai famosi manichini.

La scelta dei curatori di creare un continuo confronto si rivela vincente, anche perché consente di superare in parte la staticità di un allestimento standard, a fronte di due pittori che meriterebbero scelte molto personalizzate. Tanto più, come in questo caso, quando siamo davanti a una raccolta di oltre 150 opere, tra cui molti riconosciuti capolavori (per esempio, “Le consolateur” di Giorgio, due manichini senza volto e tuttavia di eccezionale espressività, oppure il poco noto “Il ritorno” di Alberto, in cui l'anima di un palazzo sembra poter ricreare l'uomo).

Ed è proprio grazie a questa scelta che il visitatore si può ritrovare nella famosa frase di Jean Cocteau, estimatore di ambedue: «Un amatore naïf si chiede quale dei due fratelli s'ispira all'altro, perché si influenzano. In realtà di autentificano».

La mostra, inoltre, ha un inizio che si potrebbe definire spettacolare, se non fosse penalizzato - qui ancor di più - da un allestimento anonimo: il famoso “Prometeus” di Arnold Böcklin, il grande pittore svizzero dell'Ottocento, a confronto con lo stesso tema trattato dai due fratelli. Giorgio, ancora lontano dalla metafisica (era il 1909), ma ben legato al mito, riproduce l'eroe alla maniera di quello che considerava maestro ideale, cioè assorbito dalla roccia, in un'atmosfera che richiama ancora il romanticismo; Alberto, vent'anni dopo, pur legato a Böcklin, propone un ribelle dal grande corpo ma con una piccola testa, un mito esistente e resistente, ma quasi acefalo.

Del resto, Breton aveva definito il loro modo di lavorare, al di là della forma, «indissociabile nello spirito». Prima, naturalmente, che de Chirico definisse i surrealisti «gente cretina e ostile».

Fino al 30 giugno

“De Chirico e Savinio. Una mitologia moderna” è il titolo della mostra di opere di Giorgio de Chirico (Volo, Grecia, 1888 - Roma, 1978) e Alberto Savinio (Andrea de Chirico, Atene, 1891 - Roma, 1952) organizzata dalla Fondazione Magnani Rocca, curata da Alice Ensabella e Stefano Roffi e aperta fino al 30 giugno nella straordinaria Villa dei Capolavori di Mamiamo di Traversetolo (Parma). Le 150 opere sono organizzate in diverse sezioni: il mito; la Grecia, il luogo dell'infanzia; la città, il luogo della mitologia moderna; gli abitanti della città; cavalli, centauri e gladiatori; la natura morta; la ritrattistica; il teatro.

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