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"La perduta età del pane", la rubrica di Vito Teti

Uscivamo di casa con in mano le fettazze di pane bianco, croccante, appena uscito dal forno. Correvamo nelle strade con le fette inumidite e ricoperte di zucchero o con pane e olive, pane e cacio, pane e soppressata. Mangiavamo, noi bambini cresciuti negli anni Cinquanta, giocando nelle “rughe” piene di gente e negli orti. I paesi calabresi cominciavano appena a uscire dalla “fame di pane”, da privazioni secolari. Solo in seguito, leggendo i testi di studiosi e scrittori e imparando a decifrare fonti e memorie orali, sarei stato in grado di capire che quel pane era un lusso.

Per fuggire la fame e trovare un “pezzo di pane” per i figli tanta gente partiva per il Canada, la Germania, gli Stati Uniti. Anche mio padre era a Toronto; con le sue lettere arrivavano i dollari con la regina che servivano per il pane, la scuola, i vestiti. Forse a causa di questo sobrio benessere, stentavo a cogliere il senso delle “storielle” di nonna Felicia, come quella che raccomandava di non buttare molliche per terra perché una volta defunti saremmo dovuti tornare a raccogliere tutto il cibo sprecato.

Una storiella che oggi mi pare invece ancora il caso di raccontare, per evocare il senso della sacralità del cibo, di fronte ad autorevoli stime che ci informano che basterebbe un quarto degli alimenti gettati, sia lungo la catena produttiva e distributiva che nelle nostre case, per nutrire tutti gli affamati del mondo.

Mi sarebbe sempre piaciuto scrivere un romanzo del pane, ma in diversi libri, tra cui “Il colore del cibo” che tra pochi giorni sarà ripubblicato da Meltemi, ne ho parlato come di un elemento cardine del «mangiare di un volta», emblema dei sogni e delle pratiche culinarie. Pane bianco opposto al pane nero della miseria, pane di frumento, che con olivo e vite forma la “triade mediterranea”, un modello alimentare e dietetico ideale che spesso restava un desiderio insoddisfatto. La capacità di “mescolare”, la fantasia, l'abilità culinaria delle donne di un tempo, il fare di necessità virtù aveva anche il ruolo di supplire alle molte carenze di un'economia di sussistenza.

Nei paesi, la preparazione e il consumo del pane erano accompagnati da varie prescrizioni e interdizioni. Prima di porre i pani nel forno si recitavano preghiere e formule religiose di rito. Il forno era un centro della casa, del paese, dell'universo contadino.

Anche il consumo del pane era spesso accompagnato da gesti, preghiere riti di ringraziamento: il pane non deve essere appoggiato sul tavolo dalla “parte tonda” che raffigura il “volto del Signore”; per la stessa ragione è peccato grave infilarvi la punta del coltello. Per la produzione, la modellazione e l'uso dei pani tradizionali Alberto M. Cirese ha parlato di “arte plastica effimera” che costituiva la rappresentazione più significativa della continuità tra vita domestica, vita lavorativa e vita associata, caratteristica centrale della condizione contadina.

Come osserva Pasolini in una famosa “lettera aperta” a Italo Calvino, quel mondo contadino «avanzo di una civiltà precedente», non era certo un'età dell'oro, piuttosto un'età del pane caratterizzata dal consumo di ciò che era estremamente necessario, e perciò sacro. Nell'età del superfluo, anche la vita diventa superflua.

La nostalgia della “civiltà del pane” in cui si aveva cura di avanzi, scarti e molliche ha un significato oppositivo, di critica di sprechi, accessi, sofisticazioni alimentari, mutazioni genetiche di cui non si conosce l'esito. Nostalgia anche di un mondo in cui il cibo, il pane, l'offerta ai poveri erano oggetto di venerazione e rispetto. Fastidio e amarezza, rifiuto di fronte a scene di nuovi emarginati che, nelle periferie, calpestano il pane destinato a chi è più misero.

Nei paesi, in un'economia fatta di ristrettezze, un piccolo pane veniva mandato ai vicini o ai parenti più bisognosi in “suffragio” dei defunti. Pur comprendendone le motivazioni, confesso che lo stesso sconforto mi hanno causato anche le immagini del “fiume di latte” versato per protesta per strada dai pastori sardi. Certo quel gesto trae significato proprio dal richiamo simbolico alla perdita del senso del limite che investe anche i poveri, gli ultimi.

L'ostentazione teatralizzata dell'offesa al cibo, la rabbia espressa da gesti autolesionisti mi sembrano in realtà sancire proprio una deliberata e disperata rinuncia, lo smarrimento definitivo di un'idea di comunità, di solidarietà che rappresenta un messaggio dal passato che dovremmo invece essere capaci di proiettare nel futuro.

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