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I proverbi di maggio e la nostra “nostalgia”

In questo mese di maggio, in cui si moltiplicano gli sbalzi d'umore del clima e, nell'arco di poche ore o di pochi chilometri, è possibile sperimentare ancora l'inverno o un assaggio afoso d'estate, è difficile non pensare agli effetti del grande cambiamento climatico. D'altronde, nel passato, i contadini sapevano che di maggio non ci poteva fidare quando ripetevano il proverbio «A maju, no' cangiare saju». Detti quasi identici erano diffusi ad esempio in Liguria e in Toscana, come mi racconta e mi ricorda Isabella Cecchi, e come attesta una vasta letteratura demologica di diverse regioni d'Italia, mentre altri sottolineavano il legame tra le piogge del mese e i raccolti estivi.

Numerosi altri rimandi a tradizioni festive che si possono far risalire tanto all'epoca romana dei ludi Florales o alle feste del 1° maggio in onore di Beltaine (che è anche il nome gaelico del mese), caratterizzate dall'accensione dei falò sulle colline, e la presenza di rituali popolari come il Calendimaggio e il Cantar di Maggio, diffusi soprattutto nell'area appenninica nordoccidentale e centrale, testimoniano degli scambi e delle contaminazioni culturali che hanno al centro una fase essenziale della vita delle popolazioni legate all'agricoltura.

Oltre al tema evidente della fertilità primaverile, le feste del mese di maggio presentano anche aspetti ambivalenti di contatto con il mondo dei defunti e relativi riti volti a prevenire il ritorno irrelato dei morti. I riti Argei di cui parla Plutarco e i Lemuria citati da Ovidio, che si svolgevano in questo periodo ed erano volti ad allontanare spiriti pericolosi, segnalano i legami della religione romana con culti più antichi. Maggio è un mese importante anche per la raccolta delle ciliegie, dei funghi - «lu miegghiu fungu è di maju e di giugnu» recita un proverbio di Serra San Bruno - e, in particolare del sambuco, «lu pipi di maju», componente caratterizzante il ripieno della “pitta china”, preparata in forno con la pasta di pane.

A maggio cadeva in giorno mobile (collegato alla data di Pasqua)  l'Ascensione,  l'ascesa al cielo di Gesù, 40 giorni dopo la morte e resurrezione. Maggio era anche il mese mariano e delle novene. Ricordo i capannelli di donne che all'imbrunire si riunivano per strada per «dire il Rosario».

Le “cone” della Madonna erano luogo di visite di donne e bambini che camminavano in gruppi festanti. E il “mese mariano” era il nome che si dava a un supporto di cartone o di legno dove in maniera meticolosa attaccavamo tutte le “immagini”, le “figure”, dei Santi e delle Madonne raccolte, nei mesi precedenti o custoditi nelle vetrine, nelle diverse feste del paese e dei paesi vicini. C'era una gara, tra noi bambini, a chi faceva il “misimariano” più ricco d'immagini, magari non molto conosciute, e le nonne e le mamme partecipavano di questo rito in cui si chiamavano a raccolta tutti i santi che proteggevano la casa e le campagne.

Il cuculo con il suo canto annunciava l'estate imminente. Da sotto l'albero di ciliegio, noi bambini lo interrogavamo, chiedendo quanti anni ci restassero prima di sposarci o di morire. Ogni verso del cuculo contava come un anno e significava gioia o sconforto. Anni dopo, avrei letto un celebre articolo con cui si ritiene che Ambrose Merton abbia coniato il termine “folklore”, mettendo a fuoco un concetto che avrebbe avuto innumerevoli sviluppi successivi. Nel testo, Merton ricorda una credenza popolare riportata dai Grimm e a lui stesso segnalata nello Yorkshire secondo cui il «cuculo non canta mai fino a che non ha mangiato a sazietà per tre volte le ciliegie» e osserva che il suo canto ricopre «nella mitologia popolare un carattere profetico». La credenza aveva molte varianti in Europa. Non c'è folklorista o studioso di culture popolari che non la riporti, anche nelle ricerche sul mondo popolare calabrese che ne attestano la diffusione in quasi tutti i paesi della regione.

L'opposizione alla modernità, il richiamo nostalgico a ciò che sta per scomparire inesorabilmente presenta riferimenti a un tempo mitico nonché all'invenzione contemporanea di tradizioni: un fenomeno europeo che è un chiaro esempio di una nostalgia che diventa elemento di mutazione, fondamento di una nuova identità collettiva. Pur risentendo di un atteggiamento antiquario, il fondamentale articolo di Merton non suggeriva però un ritorno al passato, ma piuttosto una consapevole opera di memoria, di salvaguardia, di conoscenza di un mondo che continua a parlare anche dopo la sua scomparsa. Allo studioso non sfuggiva il carattere mobile delle culture popolari. Le feste, le tradizioni, i riti non sono immutabili e vanno compresi per la loro carica di memoria e di sentimento dell'appartenenza, ma soprattutto per la loro capacità di parlare oggi, di dire qualcosa “qui ed ora”, in maniera nuova. Di aiutarci a capire “che ci faccio qui”.

La profezia del cuculo, un'usanza che tanta tradizione modernista potrebbe ridurre a colore o a superstizione, in realtà stabiliva una relazione tra uomo, stagioni, piante, animali, morte e vita. Non si tratta di rimpiangere ciò che non può tornare, né di aggrapparsi a un'impossibile conservazione. Nei fondi, nei rimasugli, nelle molliche di pane raccolte e baciate dai rappresentanti di una civiltà parsimoniosa e frugale c'era un nesso con il futuro, una strategia per resistere e non perdere la strada. Chissà che oggi, di fronte a una generale incertezza, all'impossibilità di previsione anche dell'immediato, non si possa tornare a interrogare il cuculo, vale a dire a dare ascolto alla natura, alla terra, agli alberi, ai fiori, alle piante, alle stagioni?

 

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