Martedì 24 Dicembre 2024

Mimì-Mario capace di farci “Volare”

Mario Incudine

A Mimì non bastava, la musica. Lui non voleva solo riempire il cielo, il mare, ogni più piccolo angolo dei cuori della sua musica, voleva proprio farci diventare come lui, che la musica la spremeva dall'aria, la tirava giù dai fili, la faceva piovere come acqua salata e profumata, la faceva uscire dalla «terra secca, e muta», la indossava come un paio d'ali, per volare. Mimì, Mimmo, Modugno resta, tenace, nella nostra memoria perché il suo slancio è ancora vivo, come la sua musica, da qualche parte dell'aria o della terra o del mare, e basta prenderlo, tirarlo giù, farcelo piovere addosso, vederlo volare. Questo è il senso dello spettacolo “Mimì. Da Sud a Sud sulle note di Domenico Modugno”, con Mario Incudine nei panni - tutti i panni, dal pastrano alla giacca alla camicia aperta - di Mimì Mimmo Modugno, andato in scena al Palacultura a conclusione della stagione di prosa “Teatro Insieme”, organizzata da Ascetur 2000, con la direzione artistica di Rino Miano. Un teatro pieno di domenica pomeriggio (invece di un centro commerciale) è già una scommessa vinta, e lo dice pure Mimì-Mario dal palco, anzi dalla platea, perché per lui non esistono confini - come non esistono nella musica e non devono esistere nei paesi e nei cuori. Mimì-Mario ci parla da subito e per tutto il tempo, con il pubblico, con la signora in rosso e col signor Luigi, con la metà di file che devono dire “Ih” e la metà che devono dire “Oh”, quando lui intona l'epica dello sceccareddu, un mito della canzone popolare meridionale e un emblema della condizione popolare. Mimì-Mario te le tira fuori, le tue radici, te le mostra cantando, e tu le riconosci. Anche se le canzoni le ha scritte un pugliese che faceva il siciliano, ma lo faceva talmente bene che la Sicilia lo ha amato da subito e riconosciuto figlio (ma tutti figli del Sud siamo: quell'unico grande Sud che è un territorio del cuore). Talmente bene che quando è arrivato sullo Stretto s'è innamorato di quel mare chiuso e vertiginoso e ci ha ambientato una delle più belle storie d'amore mai cantate: quella della parigghia di pescespada, col maschio che si fa uccidere pur di non separarsi dall'amata. E lì Mimì ridiventa Mario, che a sua volta ridiventa - gli succede spesso - l'ultimo cantore, l'ultimo cuntista, l'ultimo banniaturi che s'arrampica di vedetta e, scalzo, con la camicia aperta al vento dello Stretto, urla verso il mare («Dai e dai lu vitti lu vitti lu vitti pigghia la fiocina accidilu accidilu accidilu...»). Mimì andava dentro la musica, scavava nelle tradizioni e le reinventava. Mario fa lo stesso: entra ed esce da tutti i ritmi, da tutte le forme. Lo abbiamo visto in scena nel palco millenario di Siracusa, in piazza e in teatro, sui tavolacci e sul velluto. Lo abbiamo sentito cantare le cadenze greche e le sillabe arabe, incarnare la prosodia profonda del Mediterraneo, spremere la musica dal cielo e dalla terra, e ormai lo conosciamo. Ieri era Mario ed era Mimì, erano la stessa impresa, lo stesso slancio: sostenuto dai bravissimi musicisti (Antonio Vasta, che con Mario Incudine ha curato gli arrangiamenti, Manfredi Tumminello, Antonio Putzu, Pino Ricosta, Emanuele Rinella), che non sono soltanto eccellente sostegno e colonna sonora ma diventano, letteralmente, colonna umana, quando Mario-Mimì sfonda la parete e sfila tra il pubblico, porta tra il pubblico il rombo guerriero dei tamburi che intonano la mitica “Malarazza” («Tu ti lamenti, ma che ti lamenti? Pigghia nu bastoni e tira fora li denti!»), e sancisce una volta di più il patto sacro dell'artista, del musicista, con la gente e con la sua terra, con le sue energie nascoste, inesauribili. Oh, c'è tanta musica, nell'aria e nella memoria, e l'orecchio-cuore sensibile di Mimì-Mario la sente tutta, e piano piano, siamo certi, ce la farà sentire tutta. Intanto chiude lo spettacolo (magnificamente scritto da Sabrina Petix e con la regia di Moni Ovadia - ormai in collaborazione costante con Incudine - e Giuseppe Cutino) con uno straordinario “Nel blu dipinto di blu” a cappella, riempiendo con la voce tutto il teatro, saturando ogni minimo spazio tra le mani, gli occhi e i cuori. Perché a Mario la musica non basta.

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