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Il “turismo del vuoto” e la lezione delle rovine

Con la metà di giugno nelle località turistiche comincia “la stagione”. Si tratta ovviamente di una “tradizione” assai recente. L'industria di massa del turismo è una realtà sociale ed economica che si sviluppa solo a partire dagli anni Cinquanta e subisce un'impennata a partire dagli anni Ottanta. I giorni del Grand Tour, riservato ai rampolli delle élite europee tra XVII e XIX secolo, sono ormai molto lontani.

Dati recenti sui movimenti turistici internazionali a livello globale aiutano a comprendere le dimensioni del fenomeno: se nel 1950 i turisti all'estero erano circa 25 milioni, nel 2013 hanno superato per la prima volta il miliardo; una cifra che ha subito un aumento del 60% dal 2000 ad oggi. In epoca di deindustrializzazione dell'Occidente, capita che il turismo sia guardato come la panacea di tutti i mali delle zone del Sud, ricche di bellezze naturali, storiche e artistiche, ma afflitte da disoccupazione e scarso reddito.

Dal punto di vista antropologico, il turismo in quanto “fatto sociale” è stato analizzato da una varietà di prospettive. Sul piano sociologico, i paradossi del turismo condividono in larga misura, se non addirittura evidenziano, le contraddizioni e le ambivalenze dello sviluppo e della contemporaneità. Esiste, certo, una vasta e interessante letteratura sul flâneur contemporaneo, sulla filosofia della camminare, sul motivo del viaggiare lenti o a piedi, a cui mi è capitato di accennare anche in questa rubrica, il cui titolo stesso, “Che ci faccio qui”, è un omaggio al senso di spaesamento e alla ricerca di Bruce Chatwin, forse l'autore che ha riflettuto con maggiore profondità sul senso del viaggio nella nostra epoca. Il rovescio della medaglia di questo viaggio inteso come metafora di verità, ricerca di sé e del proprio rapporto con gli altri e con i luoghi, sembra ben rappresentato dalla superficialità e frettolosità, dal senso di alienazione del turista dei nostri giorni, che a sua volta pare rispecchiare lo sguardo sul mondo della società contemporanea.

Se, come ho spesso argomentato, la nostalgia, intesa come sentimento malinconico dello spazio ma anche del tempo, passato o futuro, è un elemento caratterizzante la modernità che si guarda allo specchio e riflette su se stessa, è possibile allora parlare di una “nostalgia del turista”, nel senso di un'illusoria ricerca di autenticità in un mondo inautentico, di un desiderio di appaesamento spesso inevitabilmente e prevedibilmente frustrato dai tempi e dai modi imposti dalla fruizione commerciale dei luoghi. Come osserva Calasso, l'uomo secolare, incapace di cogliere il divino, nel rapporto coi luoghi è inevitabilmente turista, una categoria indistinta a cui, nonostante le sue migliori intenzioni, non riesce a sfuggire.

Anche le rovine e i paesi abbandonati non mancano di attirare visitatori in una sorta di riedizione parodistica della fascinazione romantica, che rischia di inclinare pericolosamente al gusto per l'esotico. Alcuni turisti sono attratti dai paesi abbandonati perché emanerebbero un fascino misterioso, una specie di magia. Non è raro sentire accostare il termine “fantasma” ai paesi abbandonati, una suggestione che richiama un calco dell'espressione americana “ghost town”. Anche se il termine può apparire suggestivo e avere una certa carica evocativa, efficace negli slogan pubblicitari, non credo che siano queste le forme dello sguardo con cui ci si deve accostare a questi luoghi.

Chi vuole vedere “paesi fantasma” può aggirarsi nelle metropoli postmoderne, o magari cercare nei tanti insediamenti cementificati lungo le nostre coste, dove pure si compie con fatica uno sforzo di appaesamento. I veri paesi fantasma sono quegli agglomerati meta di vacanzieri estivi, i cui palazzi vuoti e chiusi durante l'inverno si ergono come una barriera tra le persone e il mare. Questi sì, talvolta, doppi inquietanti di paesi abbandonati, fantasmi di paesi che hanno avuto una vita. I paesi morti o abbandonati, questi luoghi ancora «sacri», non desacralizzati, non hanno bisogno di turisti-vampiri che, preda di una nostalgia sterile, si aggirino per placare la propria sete di vuoto in un mondo troppo pieno. Meritano invece un'attenzione ispirata da un vero sentimento dei luoghi. I paesi morti non hanno bisogno di essere imbellettati, imbalsamati, esposti alla rapida fruizione di visitatori distratti: altrimenti forse è meglio lasciarli dormire, seppellirli pietosamente, nasconderli fino a quando non verranno tempi migliori, e uomini che sappiano trarre, davvero, una lezione dalle rovine.

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