Pubblichiamo per gentile concessione di Taobuk la prima parte dello scritto inedito del prof. Gian Luigi Beccaria, autore di una lectio magistralis sul tema “Il desiderio di scrivere”.
Perché si scrive? Quale desiderio sta alle spalle dello scrivere? Si scrive per confessare, raccontare o scoprire se stessi, riaprire segrete ferite, esplorarle, prenderne coscienza, scavare negli angoli bui di sé e degli altri, far riemergere affetti, debolezze, evocare e rappresentare ricordi, sogni di ciò che si sarebbe voluto fare o dire; si scrive per fantasticare, o per porre domande, anche senza risposte, assecondare magari e celebrare la propria nevrosi, trarre dalla propria debolezza il personale sfarzo stilistico, le proprie torsioni espressive, o al contrario sfidare il caotico del sé e del mondo per trarre attraverso la scrittura un equilibrio, una ricomposizione.
Oppure il desiderio è più “impegnato” sul presente: scrivere per indagare intorno a una verità, per aprire una finestra sul mondo, indicare nuove prospettive sul reale, catturarlo attraverso una rappresentazione discorsiva, poiché in quel momento per lo scrittore è particolarmente assillante il desiderio di una inchiesta conoscitiva o etica, basata sulla cognizione degli uomini e delle cose, per cui lo scrivere diventa per lui una esperienza necessaria per comprendere la vita, per gettare luce sull’essere dell’uomo e ciò che dentro e intorno a lui sta accadendo. Si scrive in infiniti modi e con infinite aspirazioni. Intanto, si scrive anche perché si ha paura di essere dimenticati. Scrivere è un qualcosa che ha a che fare con il senso della vita, col sentirsi vivo. Ma poi si scrive, perché no?, semplicemente per diletto, non per dovere o necessità, ma per il piacere, o emozione che lo scrivere arreca. «Non c’è cosa che pesi meno della penna» annotava Petrarca nelle Familiari, un anno prima della morte; «incoercibile voluttà – la carta, la penna, l’inchiostro e le veglie notturne mi sono più care del sonno e del riposo» .
E a Boccaccio, che lo esortava al riposo: «non c’è cosa più lieta» dello scrivere, «gli altri piaceri sono fuggevoli e dilettando fan male; la penna reca gioia quando la si prende in mano e soddisfazione quando la si depone». Ci si sente deprivati della propria umanissima funzione di homo faber, se non si scrive. C’è difatti una grande attrazione al fare che lega un autore al mestiere, pari al gusto con cui un artigiano trova la sua realizzazione applicandosi quotidianamente a connettere con pazienza i pezzi dell’oggetto che sta costruendo, da tagliare, intarsiare, levigare, incastrare, incollare. Come un liutaio che fabbrica amorosamente un violino. Primo Levi parlò più volte di questa concezione del testo letterario come lavoro artigianale, un qualcosa che si costruisce poco alla volta, con sperimentazioni e approssimazioni successive: lo scrivere insomma come lavorazione più che lavoro, un procedere da uomo-fabbro, se è vero che il senso dell’uomo si realizza nelle cose che si fanno, la scrittura come un misurarsi con la materia a disposizione, un mettersi alla prova e dare un senso al lavoro come sforzo e iniziativa dell’intelligenza, lo scrivere come desiderio di un lavoro compiuto, fatto bene, un “mettere qualcosa al posto giusto”. Scrivere che non dovrebbe essere un lasciarsi andare, ma una fatica controllata, energia che colma desideri, speranze dopo tentativi.
È spesso un arrabattarsi nel buio, sino a che una sorta di “ordine” subentra all’occasionale, al casuale o caotico. Lo scrittore è un avveduto artigiano dalle mani d’oro, una sorta di “operaio specializzato della lingua”, un “meccanico” della letteratura, cui piace scegliere e fondere lo spessore semantico delle parole con la sintassi, il ritmo della frase. Pensando alla poesia, basterebbe analizzare i versi-miracolo del massimo dei nostri lirici, Leopardi, quei suoi versi leggeri come soffi sonori, vocali “tenute”, magie ritmico-timbriche dal suo dolce “legato” di liquide e vocali protratte in larga modulazione, con un alternato “rapporto” tra vocali chiare e oscure. E tra i moderni, si potrebbe scegliere il primo Ungaretti come un’altro potente convocatore nel verso della matericità dei suoni, col loro peso e spessore, per poi passare al dopo Allegria, quando si riprende il filo nobile della classicità e della sua continuità formale. Il desiderio della “composizione”, di “orchestrare” ciò che si scrive non compete soltanto alla poesia.
Tocca anche la prosa. Basterebbe esaminare attentamente le varianti d’autore, la massa di prove, riprove e riscritture. Vengono a mente i quaderni di Elsa Morante preparatori della Storia, la stratificazione delle due fasi redazionali di Menzogna e sortilegio, e le redazioni molteplici di Aracoeli; o le incessanti variazioni attestate in Giorgio Bassani, che dichiarava di avere «scritto “Il giardino” poco alla volta, con estrema difficoltà, un po’ come si scrivono le poesie, riga dopo riga». Nelle opere d’arte, ciò che sembra un risultato finito (sia esso un quadro, una composizione musicale, sia una pagina di prosa o una poesia), in realtà viene sempre anticipato da procedimenti che precedono quel risultato, preannunciato da «sudate carte». Capita ad ogni artista, anche al pittore, allo scultore: muovono la storia dell’opera loro da prime idee, schizzi e bozzetti anteriori alla scultura, al quadro finale, iniziano da studi minuziosi che accompagnano lo sviluppo di un’idea, di un’opera che cresce man mano: l’opera non è quell’oggetto immobile da contemplare ma si agita, procede, cresce liquida e mossa, lungo tappe temporali, stasi apparenti, stazioni provvisorie, che continuano nel loro farsi… Poi quel desiderio si arresta. Hemingway ha dichiarato: «Di Addio alle armi ho riscritto la fine, intendo l’ultima pagina, trentanove volte, prima di trovare la soluzione che mi soddisfacesse». Si pensi alle stesure preliminari della Recherche proustiana, alla innumerevoli versioni delle poesie di Auden. D’accordo: chi scrive versi lavora più del prosatore di cesello, perché si adopera, provando e riprovando, a “orchestrare”, a costruire la “partitura”, a stringere materialmente alleanze delle parole con le circostanti per comporre il desiderio di segni “per legame musaico armonizzati”.
Non ho certo finito la rassegna dei motivi per cui si scrive: uno importante riguarda il desiderio di vivere una vita “allontanante”, di lasciarsi alle spalle un mondo tetro, ed evadere in un altro più vasto, più vario e più ricco o più intimo. L’“allontanamento” può salvare dal sentirsi schiacciati dal presente e dalle incombenze uggiose del vivere. Lo scrittore è attratto dallo scrivere non solo perché può depositare sulla pagina i castelli della propria fantasia e delle proprie invenzioni, ma soprattutto le proprie inquietudini, deporvi confessioni che a voce non saprebbe formulare compiutamente, quasi desiderasse scrivendo di saldare dei conti con l’esperienza, dare una sistemazione ai fatti propri. Sovrasta comunque ogni altro il desiderio di libertà espressiva, che è in definitiva un esercizio di libertà dalle forme consunte. Le parole hanno contratto talmente tante abitudini nelle bocche e nelle pagine degli uomini, al punto che ci vuole un deciso coraggio, l’ardire (come lo chiamava Leopardi) che aiuti a scansare il prevedibile. Occorre ad ogni istante la prontezza di raschiare la muffa di dosso alle parole per evitare il grigiore, la sciatta routine, l’appiattimento, la banalità, la neutralità espressiva. Le parole sono un mezzo completamente in mano allo scrittore: parole vecchie da reinventare, parole nuove da forgiare, incastri e congiunzioni di segmenti narrativi o ritmici, montaggi e sequenze inattese, per il desiderio di superare ogni volta il proprio stile quando pare fastidioso e approssimato, casuale: di qui un dedicare ore e giornate a correggere ogni frase tante volte quanto è necessario per arrivare a eliminare le ragioni d’insoddisfazione.
Aggiungo un ulteriore desiderio: che quello che si scrive possa servire anche a qualcun altro, vale a dire un parlare degli altri parlando di sé, adempiere al più vero, fraterno, primitivo compito della scrittura: di recare agli uomini un diretto messaggio dell’umano, scrivere cose che riguardino in modo personale il lettore.
Ma non voglio dimenticare il desiderio in alcuni prevalente: lo scrivere come “impegno”, scrivere per “agire” sulla realtà, non già scrivere soltanto per il piacere di farlo, per il gusto, il mero desiderio di esprimersi, ma scrivere per protestare, per cambiare il mondo. Che è l’opposto del desiderio, accettabilissimo, dello scrivere inteso come attività soggettiva e solitaria, un riparo dalla vita, una difesa, creazione di una propria zona d’ombra (o di luce) personale, via del rifugio per andare là dove altri non ci sono, in un territorio tutto proprio.
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