Dimenticate i cliché. Le spie fanno la spesa, rimangono imbottigliate nel traffico, si innamorano e si ammalano di cose stupide ma talvolta letali. Proprio come tutti noi. In “Quattro piccole ostriche” (HarperCollins), il romanzo d'esordio di Andrea Purgatori - giornalista, conduttore televisivo su La7, attore e noto sceneggiatore cinematografico - un thriller internazionale che strizza l'occhio ai maestri come Le Carré e Forsyth, associando contesto e azione, personaggi e adrenalina, richiamando in azione il gran circo delle spie. Ambientato fra le Alpi Svizzere e Berlino, l'azione oscilla fra i giorni nostri e la caduta del Muro, narrando di Wilhelm Lang (alias Markus Graf), un traditore della Stasi (l'organizzazione di spionaggio della Repubblica Democratica Tedesca) che si è regalato una seconda e agiata vita con i soldi sottratti al regime sovietico ma oggi è costretto a tornare precipitosamente in azione, nonostante gli acciacchi e i riflessi appannati, per salvarsi la pelle e chiudere un conto in sospeso. Difatti, una serie di misteriosi omicidi farà salire alle stelle la tensione internazionale. Sarà davvero colpa dell'Isis? La poliziotta Nina Barbaro, Kriminalhauptkommissar di fiere origini calabresi e dal passato oscuro, indaga a testa bassa mentre Yuri, un ambizioso agente del KGB destinato a diventare presidente della Russia, e Leo Kasprik, uno psichiatra esperto di ipnosi, cercano un misterioso dossier chiamato Walrus. Perché ha scelto di esordire con un thriller? «Per tanti anni, per motivi di lavoro, ho frequentato spie di tutti i tipi e da tutto il mondo. Così facendo ho messo da parte un grande bagaglio di conoscenze umane. La nostra concezione delle spie è lontana dalla realtà. Le spie sono fatte come noi. Si ammalano di diabete, devono affrontare i nostri problemi, si innamorano e vivono rotture sentimentali. Ma tutto questo accade in modo più celato, cercando di non farsi influenzare sul lavoro dalla vita privata. Mi esaltava, inoltre, dopo aver utilizzato il registro giornalistico e quello televisivo, la possibilità di confrontarmi con la scrittura narrativa. E c'ho provato». Ma le spy-story sono ancora attuali? «Moltissimo. Pensiamo all'11 settembre, frutto dell'ossessione tecnologica di voler controllare ed intercettare tutti. Invece, forse, sarebbe bastato che gli uomini dell'intelligence avessero fatto sino in fondo il proprio lavoro, evitando di delegare tutto al grande fratello digitale. Oggi sta tornando di moda l'aspetto umano dello spionaggio; ricordiamoci che lo scorso anno l'Inghilterra ha espulso oltre un centinaio di spie russe dal proprio territorio come conseguenza dell'avvelenamento di Sergej Skripal e sua figlia, Yulia. Non è cambiato niente». Nel romanzo, la fiction si annoda a fatti reali. Ad esempio, lei cita l'attentato al mercatino natalizi avvenuto a Berlino nel dicembre del 2016. «Si tratta di una tecnica narrativa sottratta ai maestri del genere spy-story che ho personalmente conosciuto, da Tom Clancy a Frederic Forsyth. Tutti loro seguivano due regole: rendere riconoscibile la storia nella nostra realtà e inscenare una storia piena di dettagli concreti - nomi delle strade, alberghi e ristoranti - per far immedesimare il lettore». A proposito, perché le spy-story sono sempre immerse nel lusso? «Le spie navigano nel lusso, almeno nel nostro immaginario. Nel mondo reale talvolta usano gli alberghi stellati ma sono pronte a tutto. E così, nel romanzo ci sono due hotel celebri che danno una patina di splendore ai personaggi ma, in fondo, una squallida pensioncina si rivelerà assai più importante nella storia». Markus è un agente segreto a Berlino Est. Tradisce e ha paura di perdere la sua nuova vita. «Per cercare di salvarsi dopo aver rubato fondi ai servizi segreti e aver cambiato identità, è costretto a tornare prepotentemente nel passato, rivivendo tutto. Il passato torna sempre. Ma forse sarà la svolta necessaria per fargli accettare anche un legame affettivo vero dopo anni di avventure dissennate…». La poliziotta Nina Barbaro è un personaggio molto affascinante. Com'è nata? «Lei è fiera delle sue origini. Quando le chiedono se è italiana, risponde: “no, calabrese”. La Germania è piena di immigrati italiani, storicamente hanno offerto lavoro ed accoglienza a generazioni di nostri concittadini. E mi piaceva l'idea di una donna forte che sceglie di diventare poliziotto sia per riscattare i legami della sua famiglia con la 'ndrangheta sia per rompere con il proprio passato personale che lentamente affiora». Nina non è certamente una donna oggetto. Ma scrivere scene erotiche in epoca #MeToo è più arduo? «Nel romanzo c'è qualche scena forte ma credo che questo libro abbia una connotazione più femminile che maschile. Ci sono tre donne nella storia e vengono fuori molto meglio sulla lunga distanza, compresa Greta, che era accecata dal regime comunista ma non agiva per scopi personali». Il titolo scelto rimanda a Lewis Carroll e ai Beatles. Lei è un nostalgico? «I Beatles sono senza tempo, piacciono a tutti. Nella canzone “I'm The Walrus”, una delle mie preferite, c'è una strofa che recita: “Io sono te che sei me che siamo tutti”. L'identità è qualcosa di sfuggente e non dimentichiamo che i FabFour erano proibiti nel mondo sovietico...»