«Io? Io mi sento un siciliano di mare aperto». Con queste parole, che spiazzano e aprono mondi, Andrea Camilleri trovava la propria esatta definizione, replicando al giornalista palermitano Marcello Sorgi fra le pagine de "La testa ci fa dire", un delizioso dialogo pubblicato nel 2000 dalla casa editrice Sellerio (pp.176 €7,75).
Lo spunto sono le parole di Vittorio Nisticò, storico direttore de L’Ora, che divideva i siciliani in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto. Ovvero, quelli impossibilitati a lasciare l’isola e quelli che, lentamente, riescono a metabolizzare la distanza, il continente. E Andrea Camilleri, come rispose? Innanzitutto, evidenziando una suggestione («il punto di partenza della distinzione non è la terra ma parla di mare, riflette subito la condizione marina, propria dell’isola») per poi incalzare: «non solo ci sono persone che dopo tre giorni (lontane) non resistono, ma ci sono persone che non vanno fuori dalla Sicilia perché sanno che non resisterebbero, non fanno neanche l’esperimento. Da questo punto di vista, credo che il fatto di essere siciliani è peggio che essere isolani».
Camilleri ricorda la difficoltà dei primi anni lontano da casa, lo zio che vendette tutto il raccolto di ceci per fargli varcare lo Stretto per la prima volta nel ’48 e l’orizzonte professionale che si allargava: «uno poi lentamente si abitua, si guadagna i gradi di marinaio in questo mare aperto».
Camilleri non considerava la celebre sicilitudine un fattore positivo («l’orgoglio, questo tipico sentimento siciliano, mi ha ritardato molto nella carriera professionale») e così, sebbene Leonardo Sciascia divenne cittadino del mondo, la prima volta che andò in Francia si sentì perso e al telefono, proprio all’amico scrittore, confidò: «io sono iettato ca a Parigi». Insomma, non è semplice esser siciliani – lo sappiamo - ma dopo tante spine, non manca mai lo stupore: «la sorpresa di tutti quelli che vengono in Sicilia non è solo la bellezza dell’isola, ma per come sono straordinari i siciliani, così diversi dall’immagine convenzionale che li accompagna». Proprio come le spine che difendono il fico d’india. A patto di avere il coraggio di assaggiarlo.
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