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È morta Ilaria Occhini, volto dolce del cinema: aveva 85 anni

Teatro, cinema, televisione, letteratura: in tutti questi luoghi della cultura Ilaria Occhini. scomparsa ieri a 85 anni nella sua Firenze, è stata di casa, cresciuta fin da bambina in un contesto privilegiato: un nonno adorato come Giovanni Papini, un altro (più severo e distante ma sempre presente) senatore del Regno d’Italia, Pier Ludovico Occhini, il padre Barna scrittore, al centro della vita artistica fiorentina.

Questa eredità Ilaria Occhini si è sempre portata sulla scena, a suo agio nei salotti e alle premiazioni dello Strega (50 anni di felice matrimonio con Raffaele La Capria raccontano di una statura umana e intellettuale poco ripetibile), altrettanto cercata e rispettata dai grandi registi. Ha però sempre pagato un prezzo alto per la sua differenza.

Come si è scritto «sapeva fare tutto» e per la stessa ragione appariva fin troppo spesso «prestata all’arte», confinata nel personaggio della donna dolce, con lo sguardo sognante e una costante distanza dalle cose del quotidiano. Mai stereotipo si rivelò più errato: dopo gli anni della giovinezza e della massima notorietà, insieme alla figlia si rimboccò le maniche per salvare la secolare vigna di famiglia nell’aretino facendone una florida azienda agricola.

Dal punto di vista artistico ha vissuto almeno cinque vite e sempre le ha concluse con successo. Diplomata all’accademia Silvio d’Amico aveva il teatro nel sangue ma, ragazza controcorrente degli anni '50, riuscì a debuttare nel cinema sotto pseudonimo nemmeno ventenne in «Terza liceo» di Luciano Emmer. Era il 1954 e Anton Giulio Majano non esitò a offrirle la grande popolarità televisiva con lo sceneggiato «L'alfiere» trasmesso sul canale unico della Rai nel 1956.

La sua versatilità seduceva: con Monicelli cavalcava la commedia («Il medico e lo stregone», 1957), con Luchino Visconti approdava in teatro (un formidabile «Impresario delle Smirne» nello stesso anno), in tv faceva innamorare le famiglie con «Jane Eyre» sempre diretta da Majano.

Visconti fu il suo Pigmalione con il trionfo di «Uno sguardo dal ponte» (1958) e moltissimi successi a seguire, ma seppe camminare da sola affrontando il musical «Ciao Rudy» con Mastroianni) per poi scegliere artisti come Giuseppe Patroni Griffi, Vittorio Gassman, Luca Ronconi fino al suo addio alle scene negli «Spettri» di Ibsen con la regia di Massimo Castri (2005) per poi tornare ancora, complice di Piero Maccarinelli nello sperimentale «Una notte a Sorrento».

La sua seconda vita è stata certamente legata alla televisione dove proprio quell'impasto di mite dolcezza e signorilità elegante che le si era fissata in viso le apri le porte delle famiglie di ogni estrazione sociale con grandi successi da «Graziella» a «La fiera delle vanità», fino al recentissimo «Provaci ancora prof» (2013) e perfino un’apparizione in «Don Matteo».

Tutto sommato è proprio il primo amore (il cinema) ad averla trattata peggio: poche occasioni da protagonista tra «un uomo a metà» di Vittorio De Seta (1966) e «Mar nero» di Federico Bondi (2008) che le valse il Premio come migliore attrice al festival di Locarno. In mezzo molto ruoli minori (spesso cesellati con grazia) nel cinema di genere degli anni '60 e '70 e poi riuscite parti disegnate su misura quando decise di tornare al cinema negli anni '90: da «Benvenuti in casa Gori» (1990, David di Donatello) a «Mine vaganti» (2010) e alla sua ultima interpretazione («Una famiglia perfetta» di Paolo Genovese, 2012).

Tutti i premi maggiori le sono arrivati nell’età matura: 2 David di Donatello, quattro Nastri d’Argento, due riconoscimenti teatrali nel nome di Eleonora Duse e Vittorio Gassmann, i premi ai festival. Eppure avrebbe meritato molto prima se solo non avesse scelto di coltivare anche altri mondi, dalla letteratura (ha scritto una raffinata e spesso autoironica biografia) alla vita privata, dall’impresa di famiglia alla politica con i Radicali prima e poi con Giuliano Ferrara nella lista Pro Life.

Oggi ci si può chiedere che attrice sia stata: aveva l'elegante malinconia della Mangano, la faccia pulita di Audrey Hepburn, la signorilità di Virna Lisi e ovunque stava a suo agio grazie a una versatilità praticata fin dai tempi di Orazio Costa all’Accademia. Ed è forse proprio questo il suo solo limite: essere così brava da poter essere tutte. Rimane un modello di donna e di attrice in anticipo sui tempi, protagonista di una scuola italiana della recitazione che oggi, ogni volta che si spegne una delle sue stelle, resta solo come un eredità da non smarrire.

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