Quando nel 2013 l’Academy conferì a Piero Tosi l’Oscar alla carriera, volle riassumere nel suo più prestigioso riconoscimento un omaggio al genio pienamente italico di uno straordinario creatore, ma anche la conferma per una scuola d’eccellenza tutta italiana che sa dare filo, stoffa, smalto e splendore alla creazione dei registi. Cosa sarebbe infatti il nostro cinema senza i suoi formidabili scenografi, costumisti, creatori delle luci, musicisti? Con Piero Tosi se ne va oggi un artista globale che del pittore Ottone Rosai (suo maestro) eredita il senso della luce e del colore e che delle nostre più prestigiose sartorie (la bottega Tirelli in primis) trasfigura la passione per la materia di cui sono tessuti i sogni. Toscano, natio di Sesto Fiorentino, classe 1927, Tosi approda a Roma giovanissimo, chiamato da un conterraneo che crede in lui come Franco Zeffirelli e che lo presenta alla corte del granduca Luchino Visconti. In realtà fa le sue prime prove a Firenze come costumista teatrale nel '47 per «Il candeliere» diretto da Franco Enriquez, ma già due anni dopo Visconti lo chiama per il suo «Troilo e Cressida» allestito al Giardino di Boboli. I due si intendono immediatamente sul filo del gusto raffinato, della solida formazione del costumista diplomato all’Accademia fiorentina di Belle Arti, dell’idea del costume come forma espressiva del personaggio. E non sarà un caso che proprio Visconti inizia Tosi al cinema nel 1953 con «Bellissima» in cui è chiamato a trasfondere il realismo d’ambiente e l’immagine di Anna Magnani in una creazione tanto naturalista quanto immediatamente riconoscibile. Da lì parte un sodalizio umano e artistico che vedrà Piero Tosi protagonista in ben 12 capolavori viscontiani (praticamente tutti fino a «L'innocente"), ma anche in teatro (memorabile la loro «Locandiera") e nell’opera lirica da «Macbeth» a «La sonnambula». Quasi per osmosi il grande costumista affianca da subito anche le creazioni di un maestro del calligrafismo cinematografico come Mauro Bolognini che sarà il suo mentore in una dozzina d’occasioni tra «Il bell'Antonio» e «Metello» e riprenderà l’eredità viscontiana insieme all’amico Franco Zeffirelli per «La traviata» e «Storia di una capinera" (entrambi rivisitati con l’occhio del cinema). Ma sarebbe restrittivo legare il nome di questo generoso e vitale genio al solo cinema in costume e a pochi maestri di una stessa scuola: Piero Tosi lavora volentieri con tutti e adatta il suo stile ai contesti più diversi. Eccolo a fianco dell’esordiente Franco Brusati («Il padrone sono me», 1955), e poi di Dino Risi, Monicelli, Comencini, De Sica, Pietrangeli, ma anche Castellani, Matarazzo, Camerini esponenti della generazione precedente. Memorabili poi i suoi incontri con Pier Paolo Pasolini («Medea», 1969), Liliana Cavani (fin da «Il portiere di notte», 1974) e ancora Lina Wermuller col «Giornalino di Gian Burrasca» del 1964. E’ proprio lei, chiamata alla direzione del Centro Sperimentale di Cinematografia a volerlo nel 1988 per insegnare la sua arte, mestiere che svolgerà con passione immutata per quasi 30 anni creando dei fantastici atelier di recitazione in costume per i quali sono passati tutti i nuovi volti del nostro cinema migliore. Del resto l’esercizio costante della ricerca filologica sul costume, sulla distanza storica tra copia conforme e reinvenzione sono sempre stati il teatro del suo magistero espressivo, spesso traslato dal set alla scena con i suoi migliori amici e maestri dopo Visconti, da Bolognini a Zeffirelli. Ed è insieme a quest’ultimo che firma nel 2009 la sua ultima creazione col cortometraggio «Omaggio a Roma» diretto da Zeffirelli nel 2009. Tre David di Donatello, 8 Nastri d’Argento, due Bafta Awards (gli Oscar inglesi), un premio a lui intestato (al Bi&Fest di Bari dal 2009) scandiscono la sua carriera a fianco delle 5 nomination all’Oscar prima della statuetta onoraria decisa nel 2013. Tra il 2014 e l’anno seguente Palazzo Pitti (dove era nato artisticamente) gli ha dedicato una mostra permanente dei costumi più belli, a cominciare dal vestito di Angelica per «Il Gattopardo». Con Piero Tosi, si potrebbe dire, scompare la memoria vivente di un’idea del bello che affonda le sue radici nell’armonia rinascimentale e conquista la modernità nel segno della tradizione.