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Il falso, il vero e de Chirico: a Milano la mostra del pittore della metafisica

Ci sono frasi che, per quanto usate e perfino abusate, stanno lì a dire in poche parole un concetto complesso come meglio non si potrebbe fare. È il caso di questa citazione di Jean Cocteau: «De Chirico, pittore accurato, prende in prestito dal sogno l'esattezza dell'inesattezza, l'uso del vero per promuovere il falso».

Ed ecco che la troviamo epigrafe “inevitabile” alla sontuosa mostra (circa 90 opere), nel Palazzo Reale fino al 19 gennaio, curata da Luca Massimo Barbero, promossa e prodotta da Comune di Milano-Cultura, Palazzo Reale, Marsilio ed Electa, e intitolata semplicemente “de Chirico”. Falso in questo caso è da considerare un aggettivo positivo e ad ampio spettro, perché racchiude molti concetti, esemplari della pittura metafisica - e non solo - dell'artista nato in Grecia e cresciuto in Germania prima di tornare in Italia con lunghi passaggi a Parigi e New York. E, infatti, quel «falso» contiene magnificamente miti, enigmi, rebus, anacronismi, irritualità, ironia, gioco, barocco, serialità, mistero, claustrofobia, inquietudine, solitudine, spaesamento, follia, affetti familiari, ossessioni, filosofia (con i richiami all'amato Nietzsche), archeologia, scultura, storia, e altro si potrebbe aggiungere.

I contorni netti di qualcosa di innaturale, tipici delle sue piazze in cui non c'è la presenza umana, se non nelle statue o nel treno che passa sullo sfondo, i porticati che non sembrano racchiudere la vita e le ombre nettissime “segnano” quel falso di cui parlava Cocteau. Tutto è chiaro e tutto sfugge, nulla è comprensibile, si potrebbe dire. Ispirata dall'architettura di Torino e poi da quella di Ferrara, la pittura metafisica di Giorgio de Chirico (1888 - 1978) è la grande invenzione, la sua maniera di fare avanguardia, pur rimanendo in un campo figurativo che guarda alla classicità, ma che è spesso dipinto con particolari volutamente “sbagliati” nelle proporzioni, a segnare il confine della sua costante propensione alla novità, alla diversificazione.

Non è un caso che, dopo il successo internazionale della metafisica pittorica, riconosciuta dalla critica, lui spiazza tutto cambiando stile ed entrando in conflitto proprio con i critici che lo avevano sostenuto. Ora gli stessi lo banalizzano e lo combattono, dopo il secondo dopoguerra lo accusano di aver ceduto ai miti della romanità in ossequio al fascismo. Niente di più falso. Come sostiene Barbero, «De Chirico con disinteresse e tattica partecipa a tutto ma non appartiene a nessuno, è al contempo un isolato e un protagonista e il suo mondo è il mondo del mito». Ma non celebrato, bensì rivisto, rimontato, talvolta ridicolizzato, perché comunque il tempo che vive (come il nostro) non è all'altezza dei veri miti. Agiscono i manichini dalle teste indefinite e gli umani sono statue, sempre meno in grado di muoversi autonomamente. Quasi un museo in decadenza, con cui però uno spirito originale e fantasioso può anche giocare, sia pure con straordinaria serietà.

Scrive lui stesso in modo rivelatore: «Vivere nel mondo come in un immenso museo di stranezze, pieno di giocattoli». Questo gioco, allora, non è mai un esercizio soltanto ludico e nemmeno banalmente retorico, significa eccome, tanto che quello di de Chirico può essere definito un figurativo (da pictor optimus, quale lui teneva a essere) concettuale. Proprio per questo, nel percorso della mostra denso di capolavori, si è costretti nel vero senso del termine a fermarsi davanti alla splendida tempera “Il figliol prodigo”, un abbraccio fra un manichino dal corpo umano e una statua che ancora appare in grado di muovere le braccia, quasi un richiamo luciferino (e non evangelico) alla statua del Commendatore nel “Don Giovanni” di Mozart. La posizione di braccia e mani come anche lo sviluppo dei volumi mi ricorda la cinquecentesca “Visitazione” del Pontormo.

Anche se i dipinti non sono allestiti seguendo uno stretto ordine cronologico quanto invece di rimandi stilistici, si parte dai richiami strettamente familiari del “Centauro morente”, che ricorda la prematura scomparsa del padre di origine siciliana, e del “Ritratto della madre”, ai primi autoritratti, tra cui quello famosissimo del 1911 con l'iscrizione della frase di Nietzshe: «Et quid amabo nisi quod rerum enigma est?» (E che cosa amerò se non l'enigma delle cose?), autentica enunciazione di quella che sarà la sua poetica fino alla morte.

In una mostra ricca di prestiti internazionali prestigiosi la successione è poi tutta di capolavori, da “L'enigma di una giornata” ad “Ariadne”, da “Archeologi misteriosi” a “La notte di Pericle” (con l'eroe greco dissacrato e ridotto a indossare una canottiera a fantasia), dal periodo romantico a quello barocco (così detestati dalla critica a lui contemporanea, e invece da rivalutare per qualità e ironia, basti pensare ad “Autoritratto in costume da torero”), dal gruppo dei “Bagni misteriosi” alle repliche de “Le Muse inquietanti”, che fecero impazzire Andy Warhol, il seriale per eccellenza, allora considerate sommariamente come un ritorno al passato. In realtà de Chirico ha spostato sempre il suo asse di interesse in avanti, ma non ha mai rinnegato nulla. Si può dire, piuttosto, che ha aggiunto e niente ha abbandonato: ogni periodo creativo si è portato dietro ogni esperienza precedente. Con la capacità incredibile di rinnovarsi fino a 90 anni: «Siamo esploratori pronti per altre partenze», aveva scritto.

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