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"La lezione profonda degli ultimi che sono primi", la rubrica di Vito Teti

Sono trascorse due settimane da quel 27 settembre 2019, che si spera possa diventare in un qualche futuro una data da ricordare. Perché il punto è proprio questo, avere un futuro, pensare un futuro, e quale futuro. Le immagini di tante piazze, anche italiane, mostrano a chi voglia vederlo un movimento di giovani capaci di staccarsi da tv, social, videogiochi per entrare nel mondo reale, non per accettarlo così com'è, passivamente, ma per rimetterlo in discussione. La strada dei movimenti, di qualunque movimento, è una parabola sempre accidentata: ne sa qualcosa chi ha qualche di anno di più, eufemisticamente. Ragionare sul cambiamento climatico non significa solo affermare le ragioni della scienza, quanto tornare a pensare in maniera critica che scienza e tecnica debbano essere poste al servizio di tutta l'umanità.

Questi giovani potrebbero ripartire da qui, per comprendere il complesso intreccio che lascia loro in eredità un mondo segnato non solo da catastrofi naturali e climatiche, ma anche da guerre, migrazioni, enormi interessi e disparità sociali.

Tra le tante immagini, belle, di piazze e di strade piene di giovani, ha trovato un posto anche la foto di un dodicenne di un paese della provincia di Foggia. Confesso di essere tra coloro che sono rimasti colpiti da questa foto che ci mostra un ragazzo, quasi un bambino, solo con il suo cartello in difesa della terra. Che al Sud, nei piccoli paesi dell'Appenino, è forse con maggiore evidenza non solo il pianeta, ma la terra con la t minuscola, quella dove si vive e dove si spera, un giorno, di continuare a vivere.

Il piccolo Potito a qualcuno ha ricordato immediatamente le prime dimostrazioni solitarie di Greta Thunberg, di cui tutti abbiamo visto le immagini; qualcun altro ha pensato anche di farlo diventare, magari per un giorno, “il Greta” italiano. A me però Potito ha fatto venire in mente gli ultimi abitanti di cui mi sono occupato e che ho incontrato nei paesi della Calabria in questi anni. Solo come loro nella foto, questo bambino sembra tendere la mano a quanti sono rimasti, in qualche caso tornati, soli, a fare i conti con le difficoltà dei paesi spopolati e abbandonati. Con il suo piccolo gesto mi è parso contribuire a dare un senso possibile all'opera di chi, da parte sua, ancora conserva memorie, semina molliche di pane per ritrovare la via di fronte a tante promesse di futuro tradite.

In un simbolico passaggio di testimone da ultimo a primo abitante, un dodicenne ci ricorda che è possibile sfuggire alla logica del consumo e dell'abbandono di ciò che si è già consumato. Fa piacere cogliere, nelle parole di questi giovani, il senso della cura, del riguardo per i luoghi, naturali e abitati. Un senso difficile, che richiede anche di uscire dal localismo e dagli spazi ristretti, di sentirsi parte di un mondo più ampio. Riscoprire una vocazione della “casa” che non è chiusura, ma accoglienza, ospitalità. Riguardare i luoghi - i propri luoghi, riconoscendoli senza isolarli dal mondo - significa comprenderne la bellezza, ma anche le devastazioni e le dispersioni che hanno subito. Saperli assumere anche nelle loro negatività, con disincanto e senza retorica.

Riguardare i luoghi comporta la capacità di avere un legame autentico con la tradizione, senza ignorarne le ombre legate ad una storia di miseria e di oppressione, ma individuando i limiti dell'ideologia dello sviluppo. Una lezione che credo possa essere rivelarsi utile alla generazione di Potito, alla quale spetta un compito difficile.

Con la speranza che i tanti “vuoti” creati da una visione che ha distrutto il nostro habitat possano diventare “pieni”, che gli ultimi abitanti possano diventare, assieme a questi giovani, i primi di nuove comunità rifondate, in grado di imparare dagli errori passati, di ripensare i luoghi anche per coloro che verranno.

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