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"Scrivere è illuminare la nostra caverna", ad Alba la lectio magistralis di Murakami Haruki

Haruki Murakami

«Quando penso all'esistenza umana, a volte ho l'impressione di non essere altro che una zattera arenata sulla spiaggia», così Murakami Haruki, vincitore del Premio Lattes Grinzane 2019 per la sezione La Quercia, dedicata a Mario Lattes (pittore, scrittore ed editore, scomparso nel 2001), scrive in uno dei suoi libri “altri”, non uno dei romanzi cult amatissimi dai lettori di tutto il mondo, ma in “L'arte di correre” (Einaudi, 2007), un racconto-diario in cui la sua passione di maratoneta per l'“arte di correre” si identifica con quella per l'arte di scrivere. E come si fa a diventare uno scrittore che corre o un maratoneta che scrive? Non è una cosa che qualcuno ti chiede, dice Murakami; un giorno, così, ti è preso il desiderio di scrivere un libro, ed un altro giorno, così, ti è preso il desiderio di correre.

Murakami ricorda spesso il momento preciso in cui ha deciso di mettersi a scrivere: e tutta sull'arte di scrivere è la lectio magistralis, dal titolo “Un piccolo falò nella caverna”, tenuta al Teatro Sociale di Alba, in una inedita apparizione pubblica in Italia, blindatissima, davanti a un pubblico folto e attento. La serata è stata presentata da Marcello Fois. Murakami - che ha salutato il pubblico in italiano, dicendo di essere felice di trovarsi ad Alba - ha letto sua lectio (uscita alcuni giorni prima nel supplemento letterario d'un quotidiano) in giapponese, tradotto simultaneamente da Giuseppe Gervasio. Sul palco sono stati chiamati anche i suoi due traduttori, Antonietta Pastore e Giorgio Amitrano, che hanno parlato della “felicità” del traduttore nel difficile compito di restituire le emozioni della scrittura di Murakami. Il quale ha ricordato di aver vissuto a Roma alla fine degli anni 80, «anni molto belli e prolifici» (scrisse due romanzi: “Norwegian Wood” e “Dance dance dance”).

Ma quando Murakami cominciò a scrivere? Era il 1° aprile del 1978, verso l'una e mezzo del pomeriggio, si trovava allo stadio di Jingü a Tokyo, guardava una partita di baseball. Nel cielo non c'era nemmeno una nuvola e sdraiato sull'erba alzava ogni tanto gli occhi al cielo, quando la mazza di un lanciatore schioccò contro la palla, e in quel momento dal cielo scese volteggiando in silenzio qualcosa, che atterrò proprio sul palmo delle sue mani. Fu una sorta di rivelazione o, meglio, un'epifania, con la certezza che la sua vita sarebbe cambiata; così, dopo la partita, andò in treno a Shinjuku, comprò una risma di fogli e una penna stilografica (tutto ciò gli dava una sensazione di freschezza nuova, per lui) e la sera stessa, in cucina, chiuso il jazz-bar che dal 1974 gestiva con la moglie nella periferia ovest di Tokyo, si mise a scrivere, anche se non aveva mai scritto prima un rigo in vita sua.

La letteratura ha sempre qualcosa di minerale, di profondo, e in quella vena profonda Murakami trovava il suo futuro di scrittore. E nel 1982, a 33 anni, Murakami iniziava anche la sua vita di corridore. La corsa (e in seguito il triathlon), l'allenamento in solitudine (silenzio e solitudine sono un lusso interiore che Murakami considera una risorsa per scrivere, correre e ascoltare musica), la concentrazione, la necessità di resistere alla fatica, alla stanchezza mentale e quella di superare le sfide, ma anche di accettare la sconfitta e di sentire nel corpo e nello spirito l'abbattimento del corridore, il “runner's blues”, quel senso di prostrazione che coglie anche di fronte alla pagina da scrivere, gli hanno insegnato molto. Anzi, mentre correva, in America come in Giappone, gli sono sempre venuti in mente pensieri sulla scrittura. Quelli che ha allineato davanti al pubblico del teatro, riuniti attorno al suo «piccolo falò»: «Nei romanzi siamo discendenti dei narratori nella caverne», ha detto, e scrivere serve «a illuminare gli angoli oscuri di tante caverne in tanti posti del mondo. Le storie sono come dei piccoli falò».

Come corridore, è sempre stato tentato da nuove sfide e come scrittore è sempre felice della prospettiva di scrivere nuovi romanzi. «Le storie - ha detto - affiorano in modo del tutto spontaneo. Cose che emergono in maniera naturale dal profondo di me, come l'acqua sotterranea sgorga in superficie diventando una fonte. Per uno scrittore è fondamentale sentirsi libero, provare un sentimento di solidarietà con i lettori. Non stabilisco un piano prima di iniziare un nuovo romanzo: nella maggior parte dei casi comincio col buttare giù alcune pagine. In questa fase non ho quasi idea di quale sarà la trama della storia, non ci ho ancora pensato. Ma non ha importanza, basta che descriva le scene e le immagini che si formano nella mia testa man mano che si manifestano».

E poi procede, egli stesso «incalzato dalla curiosità di sapere come andrà a finire». D'altronde, «se l'autore, fin dall'inizio, stabilisse la trama e il finale, scrivere un romanzo non sarebbe affatto divertente». Una libertà assoluta, come il fluire di un brano di jazz, e anche scritture di getto, fogli che possono anche finire in un cassetto per molto tempo: alcuni «fermentano felicemente», altri «restano dimenticati lì dentro».

Anche se, forse, scrivere è un'attività “malsana”, perché - racconta in “L'arte di correre” - «quando decidiamo di scrivere un libro, cioè di creare una storia dal nulla, servendoci di parole e frasi, necessariamente estraiamo e portiamo alla luce un elemento tossico che fa parte del nucleo emotivo dell'essere umano. Lo scrittore se lo trova di fronte e pur sapendo di correre un pericolo deve maneggiarlo con abilità. Perché senza l'intervento di quell'elemento tossico, un atto creativo dal significato autentico non è possibile». Però, nell'elemento “tossico”, “malsano”, della scrittura, è contenuto anche il suo antidoto. Quale? Scrivere delle storie più forti del “veleno”. Forti come quelle che Murakami ha continuato a raccontare ai suoi lettori entusiasti, da “Norwegian Wood. Tokyo Blues” (Feltrinelli, 1993; Einaudi, 2006) a “Dance Dance Dance” (Einaudi, 1996), da “L'uccello che girava le viti del mondo” (Baldini & Castoldi, 1999; Einaudi, 2007) a “La ragazza dello Sputnik” (Einaudi, 2001). E con “Il mestiere dello scrittore” (Einaudi, 2017) ci ha fatto entrare ancora, con generosità, tra confidenze, aneddoti e riflessioni personali, nel suo laboratorio di scrittura, una realtà di metodo e ordine ma anche di fantasia e casualità.

Come l'homo narrans che dalla notte dei tempi manteneva viva l'attenzione degli ascoltatori attorno al fuoco che rischiarava le caverne e allontanava le fiere, Murakami, che come lettore e traduttore ha appreso la lezione dei grandi narratori americani (con Carver suo mentore, tra tutti) ma mantiene lo straniamento dello sguardo orientale, illumina i suoi lettori con la fiamma vivida della sua prosa lirica ed emotiva. Concentrazione, profondità e leggerezza del dettato ottenute attraverso l'attenzione per gli oggetti, per i gesti e i fatti elementari della quotidianità anche quando si raccontano i fatti più drammatici e dolorosi della vita: la ricerca di sé, il rimpianto per ciò che irrimediabilmente si perde, la complessità dell'amore e della sessualità, l'assurdità di esistenze alienate, l'assenza, la responsabilità, il peso della colpa (pure quella storica), l'accettazione dell'incomprensibile e del provvisorio, l'anelito alla libertà e al raggiungimento dei sogni, e le avventure surreali, anche criminose, con cui conviviamo, e la presenza degli aspetti magici e misteriosi del mondo.

«Se con le storie che ho scritto - ha quindi concluso - sono riuscito, anche solo un pochino, a illuminare gli angoli oscuri di tante caverne in tanti posti del mondo, e se potessi continuare a farlo d'ora innanzi, non ci potrebbe essere per me gioia più grande». Standing ovation.

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