Giovedì 19 Dicembre 2024

Se in Italia la corruzione è un fatto “strutturale”

Come mai la corruzione ha così lunga vita nella storia del nostro Paese? Come mai resiste ad ogni epoca e ad ogni regime politico? Come mai non si riesce ad estirparla nel costume, nel comportamento degli attori coinvolti? Isaia Sales e Simona Bellorio provano a rispondere a tutte queste domande nel libro “Storia dell'Italia corrotta” (Rubbettino) spiegando che in Italia la corruzione, più che una deviazione, è una regola. Non un crimine occasionale, ma un fenomeno elevato a sistema. Ripercorrendone la storia, si vede che non si tratta di episodi limitati nel tempo, ma di meccanismi strutturali persistenti: un dato strutturale, nella storia dell'Italia unita. L'elenco delle “deviazioni”, nel tempo diventate regola, è lunghissimo. Si va dallo scandalo delle Ferrovie del 1862, che coinvolse il ministro delle Finanze dell'epoca, a quello del Monopolio dei tabacchi ceduto a privati, che accomunò il presidente del Consiglio dei Ministri Luigi Federico Menabrea e il re Vittorio Emanuele II nel 1869; dallo scandalo della Banca Romana che vide implicato il capo del Governo Francesco Crispi nel 1893, alle tangenti pagate per la costruzione del Palazzo di Giustizia di Roma, all'inizio del Novecento, che coinvolse un alto magistrato. Non mancano 50 milioni di lire ricevuti da Benito Mussolini, quand'era ancora direttore del giornale socialista “Avanti”, per far cambiare linea editoriale sulla partecipazione dell'Italia alla Prima guerra mondiale. Neppure anni dopo, ormai col fascismo, il fenomeno corruttivo ha avuto rallentamenti (malgrado la propaganda). Basta citare i grandi arricchimenti dei gerarchi fascisti denunciati da Giacomo Matteotti, nel celebre discorso alla Camera, prima di essere assassinato. Più avanti, con gli scandali del dopoguerra, entriamo nella cronaca, che ci è più vicina nella memoria. Nessuno rimane fuori nell'Italia repubblicana: ministri, parlamentari, presidenti di Regione e Provincia, sindaci, rappresentanti di istituzioni pubbliche e private. Quasi tutti i settori economici pubblici e privati sono stati interessati (e continuano ad esserlo) ai fenomeni corruttivi. Neppure la magistratura resta indietro. Ne deriva, nell'analisi di Sales e Melorio, che la corruzione italiana non rappresenta una semplice degenerazione della concezione della cosa pubblica, ma è un elemento connaturato ad un senso distorto dello Stato, «che si è affermato lungo tutta la storia della costruzione della nazione». C'è un problema in più - un'anomalia tutta italiana - che fa la differenza: la presenza mafiosa diffusa nel territorio (maggiormente al Sud). Altre nazioni sono corrotte, altre nazioni hanno presenze criminali, ma in nessuna di esse c'è una “contemporaneità” di presenze, dove forme illegali di sovranità sottraggono sovranità a chi, come lo Stato, è l'unico legittimato ad esercitarla. Un esempio: non vigono le sole tasse dello Stato che per legge ha il monopolio sulle imposizioni fiscali, ma esistono altre forme di “tassazione”, quali l'estorsione e la tangente, il pizzo e la mazzetta. Questa forma (illecita) di “polistatualità” non ha riscontro da nessun altra parte o comunque non nei termini in cui esiste in Italia. Perché tutto ciò è potuto accadere? Una risposta è che da noi, diversamente da altri Paesi europei, corruzione e mafie si sono accompagnate, fin dall'inizio della nostra vicenda unitaria, scorrendo parallele, per poi intrecciarsi e condizionare, insieme, la storia italiana. “Mafirruzione” è il neologismo con cui Sales e Melorio spiegano il rapporto tra mafia e corruzione, o meglio l'irruzione, calcolata, irresistibile, della mafia nei sistemi corruttivi. Non c'è dunque un problema della morale singola del cittadino, nel fenomeno, smisurato, della corruzione italiana, ma una concezione dello Stato di una parte delle classi dirigente del Paese, che hanno reso l'abuso e la profittabilità del loro potere un fatto consuetudinario, una normale modalità di esercitare la funzione pubblica. Domanda finale, che rimane senza risposta: è possibile che il vivere disordinato, in poco più di un secolo e mezzo di vita unitaria malcerta, ci abbia fatto dimenticare, o rinnegare, il Paese del diritto romano, di San Francesco, di Dante, del Rinascimento, dei filosofi, di Raffaello, Michelangelo e Leonardo?

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