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"Trattare il dolore senza fuggire via", Sandro Veronesi racconta il suo nuovo romanzo

Sandro Veronesi

Pensate alla suggestione de “Il gioco del mondo” di Julio Cortázar e poi accostatevi, con fiducia, alle pagine de “Il Colibrì” di Sandro Veronesi (La Nave di Teseo). Narratore maturo, scrittore impegnato anche politicamente, Veronesi - premio Strega nel 2006 con “Caos Calmo” - prende per mano il lettore e lo conduce a spasso in un gioco di incastri nel tempo, oscillando dal 1960 al 2030, fra passato e futuro, seguendo le mosse di Marco Carrera, fra sospesi e illusioni, coincidenze fatali e amori assoluti, come quello epistolare e sfuggente con Luisa Lattes.

Un romanzo che sfoggia senza alcuna boria una grande tecnica narrativa, scritto «per porzioni discrete e discrepanti, spezzando la linearità del tempo, del prima e del dopo, per rendere al lettore tollerabile la quantità di dolore narrata». E come tutti i romanzi, nel solco di Tolstoj, qui si parla (anche) di infelicità, in «un atto d'accusa alla famiglia borghese del secolo scorso», con una prosa che sa farsi musicale profetizzando l'arrivo dell'Uomo Nuovo. E per fortuna, sarà una donna, chiamata Miraijin.

Partendo da un suo celebre racconto, “Profezia”, le chiedo: il tema della perdita, il rapporto con il lutto, quanto è importante nel suo nuovo romanzo?

«Ho lavorato molto su questi concetti nel corso della mia stessa vita. Mi sono informato perché volevo farmi trovare pronto».

Pronto, per cosa?

«Per riuscire a trattare il dolore, elaborarlo senza fuggire via. Questo romanzo tiene dentro parecchia sofferenza, è l'occasione per farci i conti a viso aperto. Non credo che il dolore sia una patina che si stenda su tutta la nostra esistenza rendendola opaca; al contrario credo sia uno sbocco di energia molto onesto e difficilmente sostenibile. Ma non possiamo accantonare o rimuovere tutta questa energia, e se l'oggetto amato è perso, il nostro compito è quello di canalizzare, indirizzare altrove questo slancio. E così, parto dalla perdita dei genitori, dal momento in cui Marco Carrera diventa orfano, per seguire un ragionamento sul dolore nel tempo».

Lei ha dichiarato ad Annalena Benini: «Scrivo per movimentare il dolore».

«Sì, il dolore è di tutti. Non è soltanto il nostro, non può essere egoista. Movimentarlo significa affondare le mani in questa energia, utilizzarla e al contempo tenere vivo il ricordo dell'oggetto che è venuto a mancare, sublimandolo».

A proposito di tecnica di scrittura, c'è un confine preciso in cui cercando di utilizzare questa energia in modo creativo si finisce per creare falsi ricordi, sovrascrivendo la memoria stessa dell'oggetto amato?

«Certamente, ma non accade solo con la scrittura. Dobbiamo, anzi, affidarci ai nostri ricordi soprattutto quando ci troviamo sotto pressione emotiva. Scrivere è comunque manipolare la memoria ma lo facciamo in modo consapevole, masticando e rielaborando il nostro vissuto».

Colibrì come analogia fisica, visto che Marco da giovane era molto minuto. Ma anche in senso lato poiché, in una lettera, Luisa accusa Marco di sforzarsi in tutti i modi per rimanere immobile mentre la vita scorre. Dunque, la sua è una posizione attiva o passiva?

«Attivissima! In realtà leggendo scopriamo che Marco compie una riflessione attraverso gli sguardi, un modo di toccare ed entrare nella vita degli altri. Star fermo in modo dinamico come fa il colibrì non può essere passività, nasconde un'esigenza. Allo stesso modo, con una forte carica metaforica, Marco rimane fermo per una ragione precisa, per poter osservare tutto ciò che gli accade attorno»

Il rapporto fra Marco e Luisa dall'adolescenza in avanti, il patto di castità che nasce fra i due, che tipo di rapporto racconta?

«Ci sono persone che per tutta la vita si trascinano dietro la convinzione di provare grandi sentimenti pur avendo condiviso solo pochi momenti insieme all'oggetto del loro amore. A volte ci si convince che gli ostacoli e la distanza celino un grande trasporto ma in realtà è solo una cocente illusione, la banalità della vita. Marco e Luisa non riescono a vivere i loro sentimenti e anziché archiviare tutto, si crogiolano all'idea di un amore purissimo».

Il suo romanzo si presenta al lettore con numerosi salti temporali. Andrebbe letto così com'è o è possibile leggerlo anche in ordine cronologico?

«Cronologicamente credo che non torni nulla. È stato concepito per porzioni discrete e discrepanti proprio per spezzare la dittatura del tempo lineare, del prima e del dopo, per rendere tollerabile la quantità di dolore che si annida in certi punti. Il lettore ha già capito che certi fatti arriveranno, in un certo senso è pronto».

Il Colibrì è un atto d'accusa alla famiglia borghese?

«Sì. Come tutti i romanzi borghesi. I romanzi parlano di infelicità e le famiglie del secolo scorso erano macchine da rimozione che salvavano le apparenze senza risolvere alcun problema, incubando dolori».

Spingendosi avanti nel tempo lei parla di Miraijin, l'Uomo Nuovo. Che mondo lasceremo alle nuove generazioni?

«Mi spaventa e provo vergogna per il mondo che verrà. A conti fatti i ragazzini sono le vittime delle scelte egoistiche dei loro genitori. E poi, mentre finivo il romanzo è spuntata Greta Thunberg che simboleggia proprio l'incapacità degli adulti di agire razionalmente».

Un conflitto generazionale inevitabile alle porte?

«Il problema non è il conflitto ma chi la spunterà. Se vincerà l'Uomo Vecchio, quello che nega la fine delle risorse e il riscaldamento, sarà la fine della Terra e addio futuro per tutti».

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