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"Lo zoo di vetro" e la famiglia clown dei Wingfield

Che cosa c’è di più reale di un dramma familiare? “Lo zoo di vetro”, capolavoro di Tennessee Williams (noto anche per due versioni cinematografiche), è un testo – scritto negli anni ’40 dello scorso secolo – a mezza strada tra interpretazioni psicoanalitiche ed effetti naturalistici. Sappiamo invece che spesso all’interno delle famiglie ciò che appare non è quello che è, tanto da essere una rappresentazione, a volte perfino grottesca. Partendo da questi presupposti, il regista Leonardo Lidi (prima nazionale nel teatro Carcano) scardina rispettosamente il testo di Williams, nel senso che ne mantiene parole e intenzioni, trasformando tutto il resto con il piccone di una clownerie triste – nei costumi, nella scenografia e nei gesti – che ammanta tutto e tutti e si muove tra favola desiderata e realtà banale e triste, tra contenimento verbale e improvvise esplosioni, come se, a poco a poco, diventasse sempre più impossibile tenere a bada le proprie finzioni di felicità.

 “Lo zoo di vetro” mette in scena i Wingfield: la madre e due figli, abbandonati dal capofamiglia che ha preferito una vita avventurosa e lontana. Amanda è una madre premurosa, ma soffocante e petulante; rimpiange la sua adolescenza (forse) felice, sogna un marito per la figlia Laura, timida e zoppa, e tormenta l’altro figlio Tom, l’unico che lavora, perché trovi adeguati pretendenti. Un triangolo in cui ognuno imprigiona gli altri, anche se Tom, che ha ereditato il dna paterno, sogna di fuggire. Lo fa davvero, ma la sua libertà è illusoria, perché le immagini della “famiglia perfetta” lo perseguitano nei ricordi.

«Sono un buffone», fa dire Lidi a Tom, vestito da Pierrot con lunghe scarpe da clown, mentre si aggira fra l’interno di una “casa di bambola” tutta rosa e un esterno di truciolato in cui si affonda e ci si muove con difficoltà, una sorta di mare periglioso della vita. Niente è come appare e forse invece sì, tanto da far sembrare questo interno americano, situato fra Pirandello e Beckett, che non è ciò che aveva immaginato Williams e che pure, a spettacolo finito, sembra sia l’unico modo di rappresentarlo. La querula Amanda, resa donna cannone, e l’introversa Laura, un po’ bambina con la zoppìa segnalata da una sola scarpa (da clown naturalmente), sognano e sperano un avvenire in cui non credono.

Un naso rosso gira seguendo i dialoghi e tocca per un po’ anche al visitatore Jim, l’unico in abiti non da circo proprio perché viene dal mondo e ci torna dopo avere illuso la ragazza. Lo spettacolo è destinato a ripetersi perché Tom è condannato a ricordare, mentre Amanda e Laura non scenderanno mai lo scalino che le separa dalla vera esistenza, anche quando un terremoto (dell’anima?) alla fine scuote la casa e forse riuscirà a liberare Tom.

Uno spettacolo complesso che la regia fa apparire semplice, anche per merito degli attori. Tindaro Granata (messinese di Tindari) è un eccellente Tom perché riesce a dare corpo alla coesistenza di introversione e voglia di avventura, grazie alle variazioni dei toni verbali, in voluto contrasto con movimenti sempre basici. Applaudito a scena aperta il dialogo a voci sovrapposte del litigio con la madre, ben interpretata da Mariangela Granelli. Molto bravi Anahì Traversi che fa parlare Laura anche con il corpo, e Mario Pirrello, prima padre immobile e lontano e poi insinuante visitatore.

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