«Sebbene l'Italia abbia conosciuto tante lacerazioni, è pur vero che gli italiani sono stati animati dal desiderio di convivere. Testimonianza di questo è la creazione di centri di aggregazione, confronto e discussione come le piazze. La piazza in Italia rappresenta un elemento tipico della città e testimonia il desiderio dei suoi abitanti di riunirsi in una società civile». Questo scriveva, circa dieci anni fa, in una delle note paginette del festivalfilosofia di Modena, che aveva contribuito a fondare, Remo Bodei. E della piazza, il professor Bodei, accademico e filosofo di fama mondiale che ci ha lasciato pochi giorni fa, era un instancabile animatore. Una finestra sul mondo erano le piazze nelle quali si aggirava, nel triangolo filosofico di Modena, Carpi e Sassuolo, sempre presente sin dalla prima edizione del festival, nel 2001, a quella del 2018 (assente, per motivi di salute, nell'ultima edizione 2019), sempre pronto, con il suo tratto gentile, e il sorriso che affiorava dagli occhi, a incontrare l'umano, a stringere mani, a firmare autografi, a ringraziare per le testimonianze di stima e ammirazione che gli venivano rivolte. La sua idea di città, che era quella calviniana, di luogo che realizza i desideri dei cittadini, si opponeva all'altra, negativa, e pur sempre calviniana, in cui i desideri o riescono a cancellare la città o ne sono cancellati. Della piazza, certamente, avvertiva le tensioni che sin dalle prime aggregazioni urbane laceravano le comunità, eppure sosteneva che se non avessimo l'idea che un tipo di concordia civile è comunque possibile, nonostante le difficoltà, meglio sarebbe lasciare il nostro comune destino andare alla deriva. E, tuttavia - scriveva in una delle paginette filosofiche dedicate all' “Armonia e conflitto sociale” - continuiamo a vivere perché questo non accada, non solo sperando, ma anche, e soprattutto, operando. Del resto - diceva - «siamo tutti emigranti del tempo. Molti sono stati emigranti, e lo sono ancora, nello spazio; ma tutti noi, da quando nasciamo, andiamo da un passato relativamente noto a un futuro per sua definizione ignoto». E del futuro, a partire da un presente sfuggente, lo interessava un possibile scenario in cui le biotecnologie, le intelligenze artificiali, le implicazioni antropologiche, politiche e culturali connesse ai cambiamenti (il suo ultimo libro, uscito a settembre, si intitola “Dominio e sottomissione. Schiavi, animali, macchine, intelligenza artificiale”, Il Mulino) e il potere dei mercati finanziari avrebbero ridisegnato la storia dell'umanità (era affascinato, come scrive in “Paesaggi sublimi. Gli uomini davanti alla natura selvaggia”, Bompiani, dagli immensi spazi siderali e dai “tempi profondi” del cosmo, luoghi di una nuova idea del sublime). In una realtà opaca in cui i problemi ambientali del pianeta, la crisi finanziaria, la fame nel mondo, l'immigrazione, le nuove frontiere, la politica immiserita e l'incontro-scontro tra civiltà e religioni ci fanno assistere a un abbassamento dell'orizzonte delle attese, cui ha corrisposto la creazione di “utopie fatte in casa” a misura di interessi e desideri settoriali che non tengono conto della durezza della realtà, alla preoccupazione che proiettarsi verso il futuro, pensare alle generazioni a venire, sia diventato un atteggiamento sempre meno diffuso, il professor Bodei rispondeva con un'esortazione: abbiamo bisogno, per andare avanti in maniera più sensata, con più fantasia e meno fantasticherie, di memoria che ci colleghi al passato, ma nello stesso tempo di audacia che ci apra verso il nuovo. Una realtà effettuale nella quale bisogna confrontarsi con il mondo che cambia, con le tecnologie e con i nuovi grandi colossi finanziari come la Cina e l'India, mantenendo intatta l' “utopia” di un mondo migliore: dunque, «né le utopie collettive che con la caduta del mondo bipolare hanno aperto la strada a utopie private, all'idea di paradisi a prezzi stracciati, né quelle appiattite sul senso comune, le peggiori, perché fingono di non esistere». Bisogna guardarsi - diceva - dalle utopie che resteranno puri sogni della ragione che, questi sì, producono mostri. E invece, nonostante il futuro ci spaventi, bisogna sostituire alla paura una fantasia più sostanziata di conoscenza e di realtà. Perciò Remo Bodei, senza il quale siamo tutti più poveri, ma di cui ci restano i libri, ancora di salvezza contro il pensiero acritico, amava rivolgersi ai giovani; come quelli che incontrò nel 2015 a Messina (un evento organizzato dalla libreria Bonanzinga e dall'istituto La Farina-Basile) e con i quali parlò del suo libro “Generazioni. Età della vita, età delle cose” (Laterza, 2015). Nell'intervista allora rilasciata su questo giornale, a chi scrive, disse che era «un libro rivolto a tutti, ma in particolare ai giovani, non solo perché essi costituiscono il problema più serio dal punto di vista occupazionale e educativo, ma anche tenendo conto del fatto che dall'Africa si riverseranno in Europa ancora tanti giovani e che la Cina ha abolito la restrizione del figlio unico. Quindi di giovani bisogna parlare». «Una ricchezza -aggiunse- che potrebbe diventare un problema, anzi lo è già, legato alla disoccupazione, alla perdita del posto fisso, alla mano d'opera di bassissimo costo dei paesi asiatici, e alla diffusione della robotica, fenomeno che già allarmava l'uomo dell'800 di fronte alla civiltà delle macchine». Nel suo libro insisteva sullo scollamento tra le generazioni dei vecchi e dei giovani, sulla perdita del senso vero di eredità. «Ma - diceva - inutile dare la colpa ai giovani che non ricevono e ai genitori che non trasmettono. Lo scollamento c'è e peggio del '68. C'è un indebolimento costante della figura paterna non sostituita adeguatamente, mentre il posto della madre lo ha preso la televisione che riempie i vuoti. Forse, ci vorrebbe un patto generazionale con i nonni». E tuttavia il professor Bodei si misurava con la famiglia di nuovo tipo, quella omogenitoriale, e riteneva che «anche loro sono impreparati, devono inventarsi la vita e forse ci riescono, ma vivono le stesse difficoltà di tutti». Ma per tutti, per il bene di tutti, auspicava, richiamando Richard Rorty, una democrazia buona, che «non passa per valori ultimi, ma penultimi. Una democrazia buona è quella che permette di coltivare il libero pensiero senza che si imponga la volontà di qualcuno facendola passare per il bene di tutti».