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Quando la violenza sulle donne è (anche) una forma di “punizione”

Scarpe rosse per dire no alla violenza sulle donne

Un corpo che ama, protegge, custodisce la vita, quello della donna. Eppure costantemente offeso, profanato, violato, colpito, con rabbia e determinazione. Le colpe della donna, vere, presunte o inventate al solo scopo di accusare e offendere, vengono pagate sul corpo, considerato parte debole e vulnerabile che, quando non si può possedere, bisogna distruggere.

Oggi, giornata internazionale contro la violenza sulla donna come riporta la Gazzetta del Sud in edicola, siamo di fronte a un triste bilancio, con statistiche e numeri che ove registrano un calo, trovano immediatamente un contraltare che denuncia un aumento, fino alla triste constatazione che nulla cambia, nonostante parole, buoni propositi e continue denunce, perché esiste sempre qualcosa che si sarebbe dovuto fare e - chissà perché - non si è fatto.

Tanti gli esempi a proposito, ma uno in particolare, emerso in questi giorni - nonostante si fosse verificato il 20 ottobre scorso, e nonstante ci siano molte zone d'ombra sullo svolgimento dei fatti - sembra inglobare molti degli aspetti che fanno della violenza sulla donna un fenomeno criminale plurideterminato, ove le cause apparenti nascondono comunque motivazioni profonde ben più comlpesse e inquietanti. Daniela Carrasco, nome d'arte “el Mimo”, artista di strada cilena, aveva partecipato alle proteste contro il carovita che da metà ottobre infiammano le strade del Paese; viene trovata impiccata ad un steccato in un parco della periferia di Santiago.

La morte è liquidata dalla polizia locale come suicidio, mentre le ferite inferte al corpo, seviziato e violentato, fino a morire, fanno pensare ad un'uccisione simbolica, ad un gesto di repressione dimostrativo, come monito a tutte le donne cilene sulle possibili conseguenza della loro ribellione. Il corpo violato sarebbe stato usato quindi come trofeo da esporre, come promessa ulteriore di morte. Stupice ancora una volta la modalità barbara di colpire e annientare, e la donna che usava la strada come palcoscenico per esprimere la sua arte - come tutti gli artisti desiderosa di comunicare libertà, vita e bellezza - viene punita per aver espresso apertamente il suo dissenso, per quel “no” che a qualsiasi latitudine e in ogn parte del mondo scatena la rabbia maschile. Ed è questo più verosimilmente l'aspetto della vicenda che rende Daniela una “donna simbolo”, perchè il suo corpo violato e annientato parla per tutti gli altri corpi di donne divenute trofeo della reazione punitiva maschile, all'interno delle loro case, spesso nel loro stesso letto, uccise da chi diceva di amarle.

La donna oppositrice, ovunque si esprima, deve essere messa a tacere, pena la profanazione del corpo o la sua stessa vita. Qualsiasi possa essere il movente di base, politico, sentimentale o di semplice rivalità, chi non sta alle regole dettate dal singolo, da un sistema politico iniquo o da una società patriarcale, nel senso peggiore del termine, viene barbaramente punita. La lotta per il potere, che da troppi anni si è insinuata nei rapporti tra i sessi, continua e si complica di ulteriori elementi che sembrano vanificare tutti i provvedimenti che si fanno per arginare un fenomeno che ha assunto ovunque le dimensioni di una piaga sociale.

Nonostante i centri antiviolenza e quelli per autori di maltrattamento si diffondano ovunque, anche in Italia, e a livello politico si ripete che l'argomento non può essere preso sottogamba, non si fa mai abbastanza. E le troppe donne quotidianamente abusate stanno lì a ricordarlo. Se una morte come quella di Daniela Carrasco scatena i commenti sui social e sensibilizza i media su una vicenda esemplare - ma non abbastanza e in ritardo rispetto al verificarsi dei fatti - rimane inalterata la rabbia maschile nei confronti delle donne, in tutti i contesti, anche nei paesi più civilizzati, come elemento sommesso, latente; ma reale e pericoloso. E viene fuori spesso, nei modi più strani, tanto nei discorsi da bar, quanto nei commenti detti “altolocati”, quando si coglie una sostanziale differenza tra il modo in cui si parla della donna in pubblico e quello in cui si agisce nel privato. L'ipocrisia, al pari della rabbia, è più diffusa di quanto si possa credere, nonostante i proclami ed i buoni propositi annunciati.

Tranne una minoranza di uomini realmente sensibilizzati sull'argomento - che credono nel valore indiscusso della parità tra i sessi e ne mettono in pratica i principi ogni giorno - permane una rabbia diffusa, pronta a venir fuori alla prima occasione. Ed è questo forse uno degli aspetti più proccupanti che sostengono il perpetuarsi della violenza di genere, come potrebbe essere questo il motivo per cui tante richiese d'aiuto vengono sottovalutate. Non si arriva a comprendere pienamente la portata di comportamenti considerati “normali”, che contribuiscono a mantenere il fenomeno; mentre vengono messe sotto i riflettori le cause che scatenano la violenza nei singoli casi di cronaca.

Un allargamento del focus d'osservazione sarebbe ormai auspicabile per arginare a tutti i livelli ed in maniera capillare una piaga sociale di grande complessità, prendendo in considerazione tutte le determinanti, anche quelle meno visibili, del comportamento violento nelle varie declinazioni e le modalità in cui viene espresso.

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