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Raccontare le madri e la maternità per scoprire come si fa a essere figli

Spesso, complici i social network, andiamo a caccia di divergenze, tiriamo linee di demarcazione, alziamo muri, stabiliamo gerarchie. Eppure, per dirla con le parole di Paolo Di Paolo, «niente ci accomuna come l'essere figli». È una condizione universale di partenza quella scelta dall'autore romano - classe '83 - con cinque romanzi all'attivo, già finalista del premio Strega nel 2013 con “Mandami tanta vita”. Di fatto, Paolo Di Paolo oggi è una delle menti più brillanti e dinamiche fra gli autori under 40. Nel suo nuovo romanzo, “Lontano dagli occhi” (Feltrinelli) racconta la storia di tre coppie, nella Roma del 1983. Si parte con Luciana, che lavora in un giornale che sta per chiudere e ama un uomo che chiama l'Irlandese. E poi la diciassettenne Valentina, studentessa liceale superiori, convinta che da grande farà la psicologa ma adesso è in rotta di collisione con Ermes. Infine, Cecilia, che vive fra una casa occupata e la strada finché ritorna da Gaetano in cerca di un ultimo favore. Raccontare la maternità con l'occhio maschile era una grande sfida che Paolo Di Paolo accetta con l'uso della terza persona, riuscendo a non scivolare nel pietismo, evitando la liricità del miracolo della vita, raccontando le vite che cambiano in una lunga estate romana di speranze che dura un decennio e tracima nel disincanto odierno.

Scrive che «niente ci accomuna come l'essere figli». Cosa significa?

«Talvolta le verità più ovvie hanno bisogno di essere ribadite, sviscerate dalla letteratura per ribadirne la forza. L'essere venuti al mondo ci permette in questo momento, banalmente, di poterci confrontare e al contempo si tratta di un atto così prodigioso ma pieno di contraddizioni. Questo romanzo è riflessione attorno al diventare genitori ma fra le pagine affronto soprattutto l'essere figli. Un dato incontrovertibile, incancellabile eppure soggetto a continue mutazioni di significato. Saremo sempre figli, anche in punto di morte, ma il suo significato muterà al mutare delle nostre esperienze, mettendo meglio a fuoco la nostra identità. Dall'essere figli, da questa verità ingenua, credo che partano tutte le storie».

La scintilla contro la pagina bianca, dunque. Ma raccontare la maternità è stata una sfida?

«Certamente. Non avrei mai compiuto l'azzardo di raccontare le donne in prima persona e ammiro il coraggio di grandi autori come David Grossman e Amos Oz. La letteratura ci offre la possibilità di indossare panni altrui e credo molto in questo potere; dunque, perché non mi sarei dovuto accostare - seppur con pudore e fatica - alle madri, esplorando con la sensibilità maschile ciò che inesplorabile da un punto di vista biologico? Ho sfiorato quel mondo, mi sono trovato nei pressi di quella verità e per farlo ho parlato con tante donne, evitando qualsiasi tipo di retorica, sia il concetto di trauma sia il miracolo della vita. Ho tenuto con me lo stupore e lo sconforto, la forza e il timore di non essere all'altezza».

Inevitabile domandarle se oggi, per lei, la condizione di figlio sia bastevole...

«L'ho scritto da figlio. Però, scrivendo, mi sono posto delle nuove domande e credo che sia sano l'atto di mettersi in gioco, riflettendo su una possibile paternità futura. La scena scelta è Roma, nel 1983. All'inizio osservo dall'alto, quasi planando sopra la città e osservando i destini di queste donne, inevitabilmente ho cercato le tracce degli uomini, dei padri, che all'inizio sono invisibili, nascosti, ingoiati fra la folla. Sono apparentemente indistinguibili pur se la loro vita sta per cambiare. Per sempre».

Quand'è che il futuro si attiva e diventa presente?

«Credo sia importante guardare al proprio passato non solo come qualcosa che sia fonte di privazioni, di perdita, ma come il principio delle cose. Il nostro punto di vista è cruciale e cambiarlo ci permette di mutare l'animo. Sono sempre stato un cultore ossessivo della memoria, ma stavolta mi sono chiesto: e se guardassimo alla storia come un presente in divenire, un futuro in atto? Cambiare la prospettiva mi ha svelato un orizzonte di significati in cui ogni cosa che accade, nonostante le possibili perdite delle persone amate, è un miracolo».

Questo è il suo quinto romanzo ma lei ha pubblicato più di venti libri. Numeri sorprendenti per un classe '83…

«Credo sia anche il frutto d'una nevrosi, sono sincero. Una sorta di bulimia che non mi consente di disperdere il tempo dato. Ogni volta che i ritmi potrebbero rallentare sento il rischio di perdere un'occasione. In verità, è talmente tanto ciò che mi piacerebbe scrivere, leggere e pensare che ho sempre voglia di produrre e non solo romanzi, spaziando sul teatro, il giornalismo e la narrativa per bambini…».

Ma perché ambienta la storia negli anni Ottanta? Erano davvero anni spensierati?

«Erano gli anni di “Tropicana” e “Vamos a la playa” ma innocenti non lo erano affatto. Dopo un decennio decisivo per i diritti civili e cupo per via degli anni di piombo, sembra sia di nuovo possibile guardare al futuro con il sorriso, vivendo una sorta di lunga estate. Ma c'è sempre un presagio di ombre. Perché Luciana, Gaetano e Cecilia, in realtà, hanno nel proprio animo un senso di precarietà, un'incertezza che ha contagiato tutti, noi compresi. E allora, forse, quegli anni di speranza erano le premesse degli inganni e di quella disincantata mancanza di futuro con cui facciamo i conti oggi?»

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