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Se il truce “Barbablù” incontra Freud il maschilismo è out

Mario Incudine a Messina

Uno degli aspetti più interessanti di “Barbablù” con Mario Incudine (regia di Moni Ovadia, testo della scrittrice ragusana Costanza Di Quattro), che ha debuttato al teatro Carcano (che lo produce con il “Leonardo Sciascia” di Chiaromonte Gulfi e il “Nino Martoglio” di Belpasso; ora lo spettacolo sarà in tournée in Sicilia, e la prima sarà domenica al Vittorio Currò di Barcellona) è lo sdoppiamento di personalità del protagonista. I racconti roboanti e ostentati del protagonista sono messi in rilievo da una specie di trono in cui si siede per cominciare a raccontare ognuno dei sette uxoricidi di cui si è macchiato, con una possanza fisica aumentata dai costumi (di Elisa Savi), soprattutto mantello e stivali che elevano l'altezza di Incudine e lo rendono quasi “ingombrante”.

A tratti, invece, Barbablù si accartoccia su un piccolo sgabello sistemato in un angolo, dove confessa le sue difficoltà emotive e le sue insicurezze, legate alla morte della madre durante il parto e a un padre assente, come in una serie di sedute di autopsicoanalisi.

Questa impostazione, frutto dell'ormai lunga e collaudata collaborazione fra l'attore-cantante-musicista ennese e Ovadia, corre molti rischi: da una banalizzazione psicologica a una sorta di replica del televisivo “Amore criminale”, da una giustificazione del crimine (in qualche modo contenuta nella favola di Perrault) a una spettacolarizzazione sul filo del film del 1972 interpretato da Richard Burton fino alla quasi scontata attualizzazione del tema in questa tristissima stagione nazionale di femminicidi. Incudine, supportato dalla regia e dal testo, scansa questi pericoli, nel senso che i diversi aspetti, pur presenti, non prendono mai una decisa prevalenza l'uno sull'altro. Un bilanciamento perfetto in cui lo spettacolo, pur dichiarando le proprie idee, lascia il pubblico libero di farsi sedurre da una cosa o dall'altra, e quindi di interagire come preferisce. Non è poco per una vicenda che si presta a tesi preconcette.

La messinscena è una dimostrazione quasi didascalica di come si possa attualizzare senza alcuna forzatura, mantenendo il senso dello spettacolo. Merito anche della musica, scritta dallo stesso Incudine che qua e là canta, ed eseguite dal vivo dal bravissimo Antonio Vasta. Gli accenti etnici sono universalizzati come si nota, per esempio, in un uso straordinario della zampogna, lontanissima dai ritornelli ripetitivi conosciuti. Accanto ai costumi anche le installazioni scenografiche (sempre della Savi), quasi ex voto dell'orrore, contribuiscono a un senso del grottesco che diventa cifra prevalente dello spettacolo. Inoltre le voci registrate (provenienti dall'aldilà mentale del protagonista) consentono brani di dialogo nel monologo di Incudine. Le voci sono di Marianella Bargilli, Roberta Caronia, Lella Costa, Mirella Mastronardi, Elisabetta Pozzi, Amanda Sandrelli, Silvia Siravo e Pamela Villoresi.

Fra le mani degli spettatori che applaudono rimane impigliata la necessità di questo “Barbablù” perché ci si rende conto che le due morali scritte da Perrault (1628-1703), maschiliste e antiquate, non sono così superate come vorremo credere. La prima: «Per attraente che sia, spesso la curiosità costa caro. Ogni giorno se n'hanno degli esempi. È, con buona pace delle donne, un piacere da nulla, che si dilegua non appena soddisfatto». La seconda: «Per poco che si abbia senno e si sappia decifrare il garbuglio del mondo, si vede subito che questa storia è una fiaba dei tempi andati. Un marito così tremendo o che voglia l'impossibile non si trova più. Anche scontento e geloso, lo si vede tutto miele con la moglie; e di qualunque colore sia la sua barba, è difficile riconoscere chi dei due è il padrone». Oggi, invece, ci sono ancora troppi uomini che credono di essere proprietari delle loro donne.

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