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Barbablù, lo spettacolo teatrale metafora della violenza sulle donne

Cos'è Barbablù, oggi? Una favola, direte. Una metafora, direi piuttosto. Un simbolo. Che parte dal malvagio uccisore di mogli (oggi diremmo serial killer) e attraversa tutto il dibattito attuale sulla violenza contro le donne. La più frequente e atroce delle quali è quella domestica, a opera di mariti, fidanzati, compagni.

C'è una trama profonda, in “Barbablù” - spettacolo di Mario Incudine e Moni Ovadia andato in scena, dopo il trionfale debutto di Milano, in prima siciliana al Teatro Currò di Barcellona (per l'associazione Salvatore Cattafi) - che va persino oltre i tanti pregi dello spettacolo: quell'orchestrazione sottile, e ulteriore, d'un testo scritto da una donna (la scrittrice ragusana Costanza Di Quattro) e messo in scena da uomini, e presentato a uomini e donne che reagiscono in maniera uguale eppure sorprendentemente difforme. Uno spettacolo in cui il corpo della donna è un'evocazione potente e continua, nella sua assenza.

C'è quasi ogni “pezzo”, in scena: le labbra, i capelli, il volto, il profilo d'un nudo, una forma stampata su un mantello (che ricorda il mantello “quadro vivente” di Ovadia-Re Pelasgo nelle “Supplici”, anche lì opera di Elisa Savi). E il sangue - schizzato sul ritratto, sparato con lo spray (c'è una vena pop e cyberpunk che scorre dentro l'ambientazione secentesca con le sue gorgiere ricamate e le sue corazze lanzichenecche), fatto esplodere dalle gambe aperte del manichino-bambola gonfiabile che occupa il centro esatto della scena - il centro esatto della mente di certi uomini (e quello è il momento più forte, letteralmente l'esplosione d'un tabù, l'inflorescenza sanguigna d'un delitto antico, perpetuo).

Proprio accanto alla sontuosa maternità deserta, apparente: l'abito ampio, rigido, che si schiude all'altezza della pancia, dove è gonfio un pallone rosso sangue. Una madre assente, un simulacro che torna più e più volte nelle parole di Barbablù, senza per questo rendercelo più umano, senza poterlo mai mettere tra le vittime di alcunché.

Hanno nomi di fiori, le sette donne uccise da Barbablù, Viola e Rosa e Margherita e Iris e Erica e Dalia e Primula: è un altro segnale, un altro reperto, un'altra allusione. È quel «cogliere il fiore» di chi per secoli ha ritenuto le donne giardini, orti e serre a propria disposizione: ettari da concimare e poi spogliare dei frutti, su cui andare a passeggiare per ritemprarsi, nel riposo del guerriero. È quello sfogliare la margheritina: «m'ama non m'ama», ripete mormorando Barbablù, ed è perfettamente evidente che non gli interessa saperlo. Che non fa alcuna differenza.

Lo sguardo su Barbablù - lo sguardo della donna che scrive, lo sguardo di noi spettatori - è nitido, impietoso, nudo. È lo sguardo che possiamo, finalmente, permetterci. Possiamo riflettere tutti assieme, maschi e femmine, col nostro modo di trasalire diversamente, in corrispondenza di diversi punti del testo, che è un corpo sensibile con due versanti: il maschile e il femminile che non s'incontrano, in scena, ma s'incontrano tutto attorno, a cominciare da noi che lo vediamo, e da noi che abitiamo il mondo dei femminicidi e delle pari opportunità negate, il mondo che per metà carcera le sue donne dentro veli e pregiudizi, e per metà le libera ma mai abbastanza, e ne fa merce tra le merci ma pretende che anche quella si chiami “libertà”.

E la parte più scomoda ed esaltante è dell'interprete di questo gioco sottile, che si muove su un crinale particolarmente scosceso: Mario Incudine è un Barbablù prodigioso, instancabile. A cominciare dal racconto dei sette femminicidi (chiamiamoli col loro nome, non accettiamo di derubricare a delitto criminale un delitto culturale): ciascuno è una storia a sé, tutti assieme sono un catalogo della violenza, un repertorio buono per tutti i tempi, tutte le epoche, tutte le società. Donne uccise perché non hanno obbedito, perché hanno osato guardare, scrivere, parlare, occuparsi d'affari.

E donne uccise perché hanno obbedito, non hanno osato guardare, scrivere, parlare, occuparsi d'affari. Donne uccise perché si rifiutavano, e donne uccise perché s'offrivano. Donne uccise perché non amavano, donne uccise perché amavano moltissimo. Infine tutti, donne e uomini, arriviamo all'orlo della verità, al bordo dell'abisso dentro cui siamo costretti a guardare (è Barbablù-Incudine che si spalanca e ci, si costringe a farlo) : non c'è mai un motivo, per quella violenza. Non c'è nulla che basti, nemmeno lontanamente, a spiegarla. Figuriamoci - come s'è fatto per secoli, come artatamente si tenta talora di fare ancora - giustificarla.

Barbablù ci mette di fronte al grado zero della violenza sulle donne: la sua assoluta gratuità, la sua pura sopraffazione. Barbablù è tutti gli uomini che hanno ucciso le donne, in tutte le forme in cui si può uccidere qualcuno, dalla mortificazione al negargli la parola e la testimonianza, al sangue. Ma arriviamo lentamente, per gradi, a questa verità semplice e sconcertante. E non sono solo gli “a parte” recitati sul proscenio, uscendo dalla narrazione per parlarne da fuori: Incudine parla di Barbablù, si strofina col fazzoletto la barba per togliere il trucco di scena, il blu del personaggio.

Allora è uomo che parla agli uomini e alle donne. Poi fa un salto indietro, torna nella bolla nera, blu, della narrazione, sempre più folle sfrenato e violento. È necessario per lo spettacolo, ma sembra di vedere un andamento preciso e riscontrabile in tanti uomini del nostro mondo. Ragionevoli, lucidi, logici. E a volte, inaspettatamente, di colpo risucchiati all'indietro, dentro il mondo dei barbablù. Un effetto speciale che noi donne conosciamo molto bene.

Deve essere pesante, tutto questo andare e venire dentro la violenza e la follia, e solo un animale da palcoscenico puro come Incudine può farlo così. Grazie alla sua dote più nitida: aderire sempre, in ogni momento, e quale che sia lo spettacolo, alla drammaturgia profonda della musica. Anche Barbablù canta, spezzoni musicati e una straordinaria canzone fatta solo di numeri, delle settanta volte sette che sono le violenze, dei sette peccati capitali, ma c'è di più.

La colonna sonora - che è agita in scena da Antonio Vasta, enigmatica figura di sfondo che vediamo letteralmente “produrre” il suono (e che nella “sua” Barcellona è stato accolto come un figlio e acclamato come una stella) - è sua, e il “tema di Barbablù” riassume in una sola, struggente frase musicale tutta questa storia nera, blu di violenza antica, di umanità violata e sprecata. Ma, come ogni volta, Incudine non è solo l'autore delle musiche: ne è l'architetto narrativo, l'altro regista, che mette al servizio dello spettacolo la sua mostruosa abilità tecnica di cuntista e cantante e maestro di prosodia (gli accenti, viene da dire, gli accenti sono tutto per un attore che è stato Liolà e Mimì e Barbablù, e per un musicista che posa l'orecchio a terra per captare e riprodurre tutti i colpi del cuore del vecchio pianeta femmina).

La collaborazione con Moni Ovadia, geniale regista che ha architettato tutto lo spettacolo con questo Barbablù piccolo uomo coi sopralzi e il trono spropositato che non fa che aggirarsi nell'assenza del corpo della donna, tra i suoi pezzi diroccati, è sempre più feconda: assieme sovvertono ogni genere, trasportano ogni spettacolo in territori sconosciuti, dove non c'è una sola forma riconoscibile perché le forme ci sono tutte. Fin da quelle “Supplici” al Teatro Greco di Siracusa, dove persino la forma sacra della tragedia divenne cantata mediterranea e atto d'accusa contro la violenza sugli ultimi del nostro mondo: i migranti, le donne.

Trascendere, andare oltre è lo scopo del teatro, dell'arte: Barbablù ci mostra come, in realtà, dietro quella gigantesca figura di crudele dominatore non ci sia che un piccolo uomo terrorizzato dal nulla, sconfitto dall'unica donna che osa non solo disobbedirgli (altre lo avevano fatto, ed erano morte subito), ma fidarsi di se stessa, della sua curiosità che tutte le epoche e tutti i Perrault del mondo bollano come vizio e peccato, quando è solo una delle cose che, storicamente, sono state sottratte alle donne. “Barbablù” di Di Quattro, Ovadia e Incudine è una dichiarazione potente, necessaria, oggi. Perché la storia è stata fatta da troppi Barbablù, ed è tempo che uomini e donne li guardino, li vedano per quello che sono: niente, polvere blu.

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