Fino al 4 maggio a Palazzo Madama la mostra “Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno”
Non era facile. E non si può nemmeno dire che ci si sia riusciti davvero. Quel che è certo è che l'obiettivo era ambizioso e, già per questo, ammirevole. La grande mostra “Andrea Mantegna. Rivivere l'antico, costruire il moderno”, ospitata a Palazzo Madama (il “regno” dell'architettura di Filippo Juvarra) fino al 4 maggio, «intende costituire una rappresentazione di quella che è stata la sua creazione più straordinaria, cioè l'originalissima immagine di se stesso messa a punto dall'artista in sessant'anni di carriera». Parola dei curatori Sandrina Bandera e Howard Burns e del “consultant curator” per l'antico, Vincenzo Farinella, che aprono così il ponderoso catalogo edito da Marsilio. Può sembrare, e in parte lo è, un modo per mettere le mani avanti sull'assenza inevitabile di opere non spostabili come la “Camera Picta” (detta anche Camera degli Sposi) o i “Trionfi di Cesare” o anche del celeberrimo “Cristo morto”. In realtà la presenza in mostra di una ventina di dipinti e altrettanti disegni e opere grafiche di Mantegna rendono importante questa esposizione (organizzata e promossa da Fondazione Torino Musei, Intesa Sanpaolo e Civita Mostre e Musei). Tanto più che sono presenti altri capolavori del Rinascimento: di Donatello, Antonello da Messina (il “Ritratto d'uomo”, conservato proprio a Palazzo Madama), Pisanello, Paolo Uccello, Giovanni e Jacopo Bellini, Cosmè Tura, il giovane Correggio e altri. L'aggiunta di una sala con proiezione multimediale consente di apprezzare, anche nei minimi particolari, proprio quelle opere che abbiamo indicato come necessariamente assenti. Si racconta così in sei sezioni la storia vera di un poverissimo figlio di falegname che, secondo alcune fonti, aveva fatto il guardiano di bestiame. Lui, Andrea Mantegna (Isola di Carturo, Padova 1431 - Mantova 1506), forte solo del suo talento si trovò a Padova nella bottega di Francesco Squarcione, uno che insegnava ma anche sfruttava chi imparava da lui. «… alcuni erano tenuti come discepoli - scrisse Maria Bellonci -, altri, troppo poveri per pagarsi la scuola, adottati come figli. (…) Andrea era uno fra i più poveri. Ma quel biondo di occhi chiari, così intento in se stesso quando non erompeva in ribellioni, non era per niente maneggevole né facile da intaccare nella sua precoce solidità». Ho fatto ricorso a una scrittrice perché inevitabilmente la mostra, affidandosi a solide fonti documentarie (particolarmente importanti le lettere che Andrea Mantegna nel tempo indirizzò ai tre diversi duchi che furono a capo della corte di Mantova e a Isabella d'Este, moglie dell'ultimo, con la quale ebbe un rapporto difficile), rischia almeno un po' - al contrario dei propri intenti - di ridurre l'uomo alle lamentele (non solo questo, certo) per il ritardo con cui i Gonzaga lo pagavano, i problemi economici per costruire la sua agognata casa (famosissima perché per la prima volta viene “inventato” un cortile circolare), le lamentele nei confronti dei vicini. È una lettura che contrasta molto, anzi troppo, con l'enorme statura dell'artista e porta a un doppio binario. Perché Mantegna è stato un sommo pittore deve essere idealizzato pure come uomo? Naturalmente no, anche perché percorrendo la sua vita, sono poi prevalenti i momenti di grandezza umana: da quando, ancora ragazzo, seppe frequentare i circoli umanistici di Padova, prendendo confidenza con la classicità oltre che con le opere di Donatello. Ed ebbe anche la capacità di idealizzare la propria arte e, da autodidatta culturale, inserirsi a pieno titolo (dal 1460) nella corte di Ludovico Gonzaga, impregnata dagli insegnamenti di quel grande umanista che fu Vittorino da Feltre. Del resto, era già entrato nell'ambito della grande pittura sposando nel 1453 Nicolosia, figlia di Jacopo Bellini e sorella di Giovanni, il grande amico-rivale di Antonello a Venezia. E ci sono anche i rapporti densi di stima con grandi quali Leon Battista Alberti e Lorenzo il Magnifico e quello difficile (e affrontato con decisione) con papa Innocenzo VIII. Mi sembra che a questa mostra così accurata e interessante manchi proprio un momento di sintesi (magari affidato a uno scrittore) fra le fondamentali ricostruzioni degli storici dell'arte e una maggiore vibrazione dell'animo umano di Mantegna. A parlare ci sono le sue opere, naturalmente (grazie a tanti prestiti internazionali), con un percorso che comincia con “Sant'Eufemia” e la “Lunetta con Sant'Antonio e San Bernardino da Siena” e che si conclude con una delle opere più famose, l'“Ecce Homo”. Pur nell'assenza dei dipinti più importanti, appaiono chiari alcuni caratteri fondamentali di Mantegna: il suo dipingere che sembra farsi scultura, il gusto per l'architettura che diventa fondamentale nell'impaginazione originalissima di molte sue opere, il senso nuovo della prospettiva, l'opera grafica che precede Dürer (la “Madonna dell'Umiltà” è considerata la più bella stampa del Cinquecento), la capacità di guardare al classico con gli occhi del Rinascimento, senza farsi condizionare mai (neppure quando andò a Roma) dalle statue e dagli affreschi dell'antichità. Lui era moderno. Un percorso, quello della mostra aperta a Palazzo Madama, che comincia con “Sant'Eufemia” e la “Lunetta con Sant'Antonio e San Bernardino da Siena” e che si conclude con una delle opere più famose, di Mantegna, l'“Ecce Homo”. Pur nell'assenza di alcuni dei dipinti più importanti - opere non spostabili come la “Camera Picta” (detta anche Camera degli Sposi) o i “Trionfi di Cesare” o anche del celeberrimo “Cristo morto” - appaiono chiari alcuni caratteri fondamentali di Mantegna.