Quando chiediamo a Massimo Bray, già ministro per i Beni, le Attività Culturali e il Turismo nel governo Letta, oggi direttore generale dell'Istituto della Enciclopedia Italiana Treccani, cosa mettere alla “voce cultura”, come recita il titolo del suo recente libro “Alla voce Cultura. Diario sospeso della mia esperienza di Ministro” (Manni), ci risponde così nell'intervista rilasciata al nostro giornale. «Sono convinto che la cultura sia chiamata a svolgere un ruolo che sarà sempre più fondamentale nella ricostruzione del senso civico e del sentimento di appartenenza a una comunità solidale.
Alla voce cultura, dunque, non vanno messe soltanto le sue espressioni tradizionalmente considerate “alte”, la letteratura, l'arte, la musica, lo spettacolo, il cinema, e i beni storico-artistici e naturalistici: certamente essi costituiscono la trama essenziale di quel fittissimo tessuto che è il nostro patrimonio culturale, ma le nuove tecnologie, l'industria creativa, l'artigianato e il comparto enogastronomico, nonché tutte le innumerevoli espressioni della cultura popolare, delle tradizioni e del folklore sono altrettanti elementi che possono contribuire in modo strategico allo sviluppo economico, ma soprattutto civile e sociale, del nostro paese».
Bray ha presentato il suo libro, un diario “autobiografico” ma anche un resoconto dei suoi tanti viaggi-missione, a Lamezia Terme, in un incontro della Fondazione TRAME, organizzatrice del Festival dedicato ai libri sulle mafie, e da ALA Onlus. Un modo significativo di inaugurare l'anno in attesa della decima edizione del Festival, parlando di libri, di realtà culturali e di «progetti come Trame - ha detto Bray - che contribuiscono a costruire quella sensibilità atta a favorire la nascita di una futura classe politica».
Professor Bray, perché il suo libro è un “diario sospeso”?
«“Sospeso” è una parola che racchiude un senso di incompiutezza, certo, ma anche di speranza. A Napoli c'è un'usanza bella e particolare, quella di lasciare un caffè “sospeso”; cioè pagato al bar per un ignoto bisognoso. Il mio diario è “sospeso” in primo luogo perché parla di un'esperienza che è nata, è durata e si è conclusa con tempi convulsi, un po' frenetici, come sono quelli della politica italiana, e certamente anche perché è stato scritto in modo estemporaneo, prendendo spunto da suggestioni e situazioni contingenti. Ma è “sospeso” anche perché, appunto, porta in sé la speranza che ciò che ho vissuto e raccontato sia stato solo l'inizio, e che la grande comunità che crede nel valore della cultura per cambiare il nostro Paese, con cui ho avuto modo di interagire in tante bellissime occasioni, continui ad esistere e anzi a crescere sempre di più».
Nelle sue pagine lei fa dialogare le culture conosciute durante i suoi viaggi. Lei parla, infatti, di “diplomazia culturale”. Cosa le hanno insegnato le missioni in Iran e Palestina? Come dialogare oggi con questi paesi dalla storia importante e dalle scelte politiche “impegnative”, che sono al centro di scenari critici nel pianeta?
«In Iran, così come nei molti altri paesi che ho avuto modo di visitare in questi anni, ho trovato una grande ricchezza di culture e una forte volontà di preservarle, di difenderle dall'omologazione imposta dalle dinamiche del consumo contemporaneo. Il bisogno, per ogni popolo, di mantenere viva e tramandare la sua identità è legittimo e va compreso e sostenuto. Tuttavia, quando dalla tutela delle proprie radici si scivola verso la paura e al rifiuto del diverso, significa che si è persa la capacità di dialogare che ha sempre caratterizzato le culture del Mediterraneo. Dobbiamo ridare centralità all'Italia sul piano delle relazioni internazionali, ma dobbiamo farlo non con il linguaggio dello scontro e dell'aggressività:».
Cultura, buon governo, qualità della vita stanno tra loro in stretto rapporto. Sicuramente, guardando a certe epoche del passato, cultura, buon governo e qualità della vita sono migliorati. Ma allora cosa manca oggi? Cosa è venuto meno, dopo il grande sforzo dei Padri Costituenti, in questi ultimi anni?
«L'elemento principale che mi pare sia venuto meno in questi ultimi anni è la capacità di avere visione, di progettare il futuro con vera lungimiranza, superando, per il bene della collettività, le parzialità e i contrasti come seppero fare i Padri Costituenti elaborando una Carta in cui si potesse riconoscere ogni cittadino italiano. La contingenza delle scelte, unita alla crescente approssimazione del linguaggio politico e alla diffusione indiscriminata, soprattutto attraverso la rete, di fake news, di notizie parziali, alterate, decontestualizzate e usate per catalizzare l'opinione pubblica estremizzando i concetti e alzando sempre i toni del discorso fino a giungere all'insulto e alla diffamazione: tutti questi sono altrettanti aspetti dell'impoverimento e della polarizzazione del dibattito politico, che inevitabilmente si riverberano sull'intero corpo sociale, generando insicurezza, insoddisfazione, sfiducia verso le istituzioni e la partecipazione alla vita civile del paese».
Fare cultura significa fare comunità. Un motivo centrale del suo libro. Ma come ricominciare, oggi, a fare comunità?
«Per ricostruire il senso di comunità, ad ogni livello, occorre in primo luogo ricostruire la cultura del bene comune e il valore della partecipazione, delle scelte ponderate e condivise, della collegialità. In un momento storico in cui torna in auge la pericolosa figura dell'uomo solo al comando, che decide per tutti e ha la risposta per tutto, riprendersi carico delle proprie responsabilità civili è già un grande passo. Ognuno di noi ha la capacità e la possibilità di migliorare il luogo in cui vive, anche solo curando un'aiuola, facendo volontariato per ridare vita agli spazi comuni, sostenendo i piccoli negozi di quartiere, collaborando a ricostruire le connessioni sociali di base. Ma anche il ruolo delle istituzioni è fondamentale, perché solo una società che educa ogni cittadino a pensare che ‘pubblico' non significa ‘di nessuno', ma ‘di tutti', e quindi ‘anche mio', e in quanto tale da preservare ‘come fosse mio', può riuscire davvero a costruire un nuovo senso di comunità».
Bisogna - lei ha detto - in questi tempi di linguaggi urlati, ridare valore alle parole, anche a quelle banalizzate, svilite e strumentalizzate, come popolo, famiglia, nazione, identità, valori. Crede che sia una missione possibile che la politica recuperi credibilità mettendo insieme ciò che attualmente manca, e cioè progettualità, comunità, visione del futuro?
«Posso e voglio credere che sia possibile tornare a parlare, a partire da chi ha ruoli istituzionali o di rappresentanza politica, un linguaggio che sia allo stesso tempo inclusivo ma non stereotipato, equilibrato ma pregnante e non “politichese”, immediato ma non violento. Popolo, famiglia, nazione, identità, insieme al lavoro e alla libertà, sono le coordinate semantiche su cui si regge la nostra Costituzione: pertanto, al di là dei significati divisivi che una certa politica vuole loro attribuire, esse restano il vocabolario fondamentale di ogni cittadino. È il modo in cui una parola si usa a fare la differenza. Dobbiamo trovare un'unità d'intenti che si fondi sulla cultura, sul dialogo, sulla consapevolezza della nostra storia, per immaginare un futuro più equo, sicuro e solidale, per tutti».
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