Maurizio Spinello è l'unico abitante di Borgo Santa Rita, un piccolo paese abbandonato vicino a Caltanissetta. Tra i ruderi delle antiche case produce circa 150 chili di pane biologico al giorno con il quale rifornisce rivenditori di tutta Italia. A Serrapetrona (Macerata), semidistrutta dal terremoto del 30 ottobre 2016, con il suo appello «Restate qui» la sindaca Silvia Pinzi è riuscita a garantire alcuni servizi essenziali e sembra aver vinto la scommessa di non fare andare via i mille abitanti. Ho avuto modo di incontrare persone che, dopo i terremoti che hanno sconvolto l'Appenino, non vogliono lasciare il proprio luogo, la chiesa, la casa, la terra, le mucche, l'orto, magari quella vita di fatica e solitudine a cui avrebbero voluto sfuggire e che si accorgono di amare nel momento in cui la fuga diventa espulsione, allontanamento forzoso. A voler restare e tornare non sono tanto i vecchi in cerca di un luogo dove morire, ma i giovani che cercano un posto dove creare nuova vita, nuova socialità. È un movimento diffuso, spesso non coordinato; una scelta di vita anche politica, nel senso che è tesa a costruire una nuova polis, un nuovo modo di abitare e organizzare spazi, economie, relazioni nei luoghi dell'abbandono. Numerosi gruppi, movimenti dal basso, associazioni rivendicano l'affermazione «Io resto» anche in grandi centri urbani, come nel caso di «Io resto a Crotone», che vede impegnate persone di ogni età che vogliono creare opportunità di lavoro a partire dalle bellezze e dalle risorse paesaggistiche, archeologiche, artigianali, alimentari di cui tutta la provincia è ricca. Esperienze diverse che si attivano, fuori dalle logiche politiche e amministrative, per decidere come umanizzare l'antico e il nuovo spazio. Per chi come me, nato in un paese mobile, in fuga anche se pieno di fatica e di relazioni, ha visto negli anni il trionfo del vuoto, lo svuotarsi di intere comunità, questi movimenti hanno un significato affettivo, sentimentale che alimenta speranza. Proprio per questo, però, non bisogna cadere nella retorica del restare, non cedere al facile entusiasmo o non ridurre a slogan quello che è un processo difficile, complicato, di lunga durata. Concezioni neo-romantiche, estetizzanti, tendenti all'esotismo di maniera, retoriche identitarie, sterili e banali affermazioni sulla bellezza dei luoghi, sguardi compiaciuti e inautentici anche sulle devastazioni: tutto concorre a fuggire dalla realtà. Ai tempi di Alvaro le élite si rifugiavano negli splendori di Sibari e della Magna Grecia, mentre braccianti e contadini fuggivano all'estero; oggi la fuga è in un mitico buon tempo antico mai esistito, in una presunta Borbonia felix, mentre i giovani continuano a fuggire per non tornare più. I luoghi hanno bisogno di amore, di cura, di progettualità, ma anche di verità, di interventi mirati, di sguardo prospettico, di un'identità del fare non occultata dell'identità dell'essere. Proiezioni di seri istituti demografici ci dicono che tra meno di vent'anni la Calabria potrebbe perdere altri 500mila abitanti, ritornando così alla realtà desertificata che seguì le grandi pestilenze e catastrofi del tardo medioevo. I comuni della Calabria sono 404, ma chi conosce questa regione per averla percorsa a piedi e in macchina, sa bene che alcuni di essi sono composti da decine di piccoli frazioni. C'è una teoria infinita di villaggi, piccoli borghi, gruppi di case dove vivono solo poche famiglie, spesso un ultimo abitante. La lettura di questo quadro non può prescindere da una visione generale. Nella lunga preistoria e storia dell'Homo sapiens l'emigrazione è una strategia evolutiva fondamentale, sia sotto il profilo biologico che culturale. Migrare è un fattore di mutamento e adattamento, ma anche coloro che restano o accolgono contribuiscono all'evoluzione. Stanzialità e fuga sono due volti dello stesso fenomeno, due modalità di sopravvivenza che devono essere comprese assieme. Oggi, nel nostro mondo sono migranti oltre un miliardo di persone su sette miliardi e mezzo. Un processo così radicato nella storia dell'umanità si può sperare di governare soltanto con una politica lungimirante, eticamente e razionalmente orientata, che riconosca il diritto di partire, ma anche quello di poter restare e sopravvivere con dignità nel territorio dove si è nati. Numerose analisi si interrogano sulla cesura che l'Antropocene sembra oggi comportare. Alcune enfatizzano il rischio immanente di fame, sete, guerre per l'acqua, epidemie sconosciute, per altre avremo nuovi cibi, case confortevoli, acque salubri, tempo libero illimitato. Alcuni immaginano l'avvenire dell'umanità spostato dalle metropoli alle campagne, ai piccoli centri. Altri una separazione ancora più netta tra pochi privilegiati e nuovi senza casta relegati tra le rovine di luoghi in abbandono. In fondo, se davanti abbiamo almeno due grandi categorie di scenari vuol dire che non tutto è accaduto: tra pessimismo apocalittico e ottimismo futuristico, è ora di abbandonare la grande cecità, accorgerci dei rischi in corso, fare i conti con le apocalissi possibili, non essere ingenuamente ottimisti e consolatori. È in questo contesto che possiamo cercare di dare un senso al nostro partire, restare, tornare. Sentendo la responsabilità delle nostre scelte quotidiane, faticose, pazienti per realizzare piccole “utopie minimaliste”, senza immaginare scorciatoie, per il destino del mondo. Che ci faccio qui