La vita prende appunti ma è la morte che scrive la storia. Ha bisogno di tempo, come fosse un’alta marea che si ritira lentamente, lasciando un foglio di sabbia, sul quale trovano spazi impronte di verità più solide, tali da cancellare le forme variabili dell’acqua. E il tempo è maturo per proseguire – a vent’anni dalla scomparsa – nella ricomposizione storica di Bettino Craxi, lontano dal furore giustizialista e forcaiolo che ha sommerso l’Italia degli anni Novanta. Come un’alta marea.
Riscrivere e non rileggere, nel solco tracciato dal “Presunto Colpevole – Gli ultimi giorni di Craxi” (Einaudi), scritto da Marcello Sorgi. Memorie personali e riflessioni, interrogativi incarnati nelle piaghe del leader socialista, in esilio ad Hammamet, con il piede squarciato dal diabete («Fa tante storie per un foruncolone» disse Di Pietro), e nelle ferite che la sua tragica fine ha aperto nella coscienza ipocrita del nostro Paese.
Ma sarebbe maliziosamente superficiale affidare al libro il ruolo di specchio di due generazioni politiche, limitandosi a un confronto tra i giganti di ieri e i nani di oggi, secondo l’osservazione del direttore dell’Espresso, Marco Damilano. Tesi sbrigativa, quasi liquidatoria. No, Marcello Sorgi ci invita ad aprire i cassetti, a fare i conti con i doppifondi della memoria, non più ottenebrata dalla «rivoluzione» di Tangentopoli e dal «tintinnio di manette». E allora i tempi sono maturi per ricollocare Craxi nell’album della politica italiana, sottraendolo alla camicia di forza che per troppi anni ha dovuto indossare, da vivo e da morto: simbolo per eccellenza della politica predatoria, fondata sulla corruzione, leva per la scalata al potere e il controllo delle istituzioni.
Così l’autore del libro incrocia il destino del leader socialista con quello di Aldo Moro, entrambi vittime di due trattative deviate verso un vicolo cieco: «Sono vicende molto diverse. Ma il filo di ferro che le unisce, oltre al fatto che riguardano personaggi eminenti della politica italiana – gli ex presidenti del Consiglio rimasti più a lungo a Palazzo Chigi, due innovatori che avevano a cuore il futuro del proprio Paese – è l’incapacità dello Stato, che sarebbe potuto intervenire, e non lo fece, per salvar loro la vita. In questo, soprattutto in questo, Moro e Craxi hanno avuto lo stesso destino: cadere vittime di un’indifferenza e di una spietatezza che non si aspettavano, che non pensavano di meritare».
Quella stessa trattativa per la quale Craxi si sarebbe speso fino all’ultimo, solo contro un muro di gomma, nel tentativo di strappare Moro alla sentenza di morte annunciata dai brigatisti, mentre per lui non si trovò quel corridoio umanitario che avrebbe dovuto portarlo in Italia per essere operato in un ospedale attrezzato. I suoi compagni in Italia, quei pochi ancora rimasti dopo l’evacuazione dalla casa “infetta”, raccolsero disponibilità politiche che s’infransero sulla linea dura del procuratore di Milano, Saverio Borrelli, come conferma l’ex premier D’Alema: «Fu irremovibile».
«Craxi poteva tornare a curarsi – scrive Sorgi – ma a condizione di sottoporsi alle conseguenze delle sue condanne e all’arresto “come qualsiasi altro”. In ospedale sarà “piantonato”». Inaccettabile, oltraggioso, ingiusto per il leader socialista che fino all’ultimo ripeterà: «La mia libertà equivale alla mia vita». Ma di fronte al filo spinato la politica si ferma, anzi arretra, balbetta e sfuma in una pavida subalternità. Un «dibattito sconclusionato», sottolinea l’autore del libro: «I magistrati non hanno alcuna voglia di collaborare, temendo forse di restituire al potere politico quel primato ormai soggiogato dalla stagione degli arresti».
L’ultimo tentativo fu con la Chiesa. La famiglia di Moro ottenne un appello timido e inutile del Papa, quasi un “non possumus” rispetto alla scelta di coraggio che supplicava lo statista prigioniero; il leader socialista neanche quello: «Gennaro Acquaviva, ex capo della segreteria politica di Craxi, organizza un appuntamento tra Stefania e il cardinale Angelo Sodano, segretario di Stato della Santa Sede». Ricorda la figlia: «Mi ascoltò con grande attenzione, poi si mise la mano in tasca. Ne trasse due rosari benedetti dal Papa e me li consegnò, assicurandomi che avrebbe ricordato mio padre nelle sue preghiere».
L’uomo più potente e temuto d’Italia, il segretario che riportò il Psi al centro della scena politica, il premier che fermò gli americani a Sigonella, che ingaggiò duelli feroci con il Pci e poi con la Dc, che vinse la battaglia sulla scala mobile, era solo un corpo ingombrante di quasi due metri, scavato dalle malattie. Nessuno aveva più voglia di leggere i fax che spediva da Hammamet.
Ma Craxi fu anche l’uomo che rinfacciò a «becchini, bugiardi ed extraterrestri» i finanziamenti illeciti custoditi nei forzieri dei partiti. Flussi di denaro che scorrevano nelle vene della guerra fredda e che continuarono ad affluire copiosi nelle sedi delle forze politiche attraverso la corruzione. Il leader socialista fu interprete spregiudicato di un arrembante assalto al potere, rivaleggiando con la Dc nella capacità di piantare i suoi “garofani” nelle istituzioni pubbliche, nei consigli di amministrazione, dalle Ipab alla Rai. A tappeto. Come scrisse Massimo Fini: «Io sono d’accordo quando Craxi governa, ma mi indigna il modo in cui sottogoverna. In pochi anni il Psi è diventato uno dei più assatanati lottizzatori». Alla fine, però, la figura dello statista, fonte d’ispirazione del riformismo europeo – come ha riconosciuto Tony Blair – soccombe rispetto al profilo di capo dei “mariuoli”, organizzati per saccheggiare lo Stato e ingrassare conti correnti all’estero. Un’immagine che inchioda Bettino Craxi, il “Cinghialone”, al pubblico disprezzo, lui più di tutti gli altri, mentre tanti compagni escono dalle finestre e scappano dalle scale. Inizia la diaspora «dell’Italia dal garofano rosso», come cantava Antonello Venditti.
L’alta marea si ferma con la morte nella sua casa di Hammamet: «Arriva anche una telefonata di Marco Minniti, sottosegretario a Palazzo Chigi; offre a nome del governo, per Craxi, i funerali di Stato che la famiglia rifiuterà. Dopo Moro è la seconda volta che avviene una cosa del genere. È una strana contraddizione, in effetti, quella in cui si è infilato D’Alema – osserva Marcello Sorgi – . Se Craxi era un tal brigante matricolato che non è stato possibile riportare in patria, neppure in fin di vita, che senso ha tributargli da morto gli onori militari e la riconoscenza che lo Stato riserva agli ex presidenti del Consiglio, ai patrioti e alle alte autorità?».
L’alta marea si ritira, si mette in moto «una grande, straordinaria, inarrestabile ondata di ipocrisia, in cui tutti quelli che in vita lo avevano contrastato, combattuto, odiato, adesso che se n’è andato lo rivalutano e si rimpallano le responsabilità e le colpe di averlo fatto morire in modo indegno». Eppure il leader socialista era stato buon profeta. Le sue ultime parole furono trovate sotto il letto dopo la morte, raccolte in un foglietto che Marcello Sorgi considera il suo testamento morale: «In questo processo, in questa trama di odio e di menzogne, devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri. Dopo quello che avete fatto alle mie idee la mia vita non ha più valore. Sono certo che la storia condannerà i miei assassini. Solo una cosa mi ripugnerebbe: essere riabilitato da coloro che mi uccideranno». La Spoon River di Bettino Craxi, il suo epitaffio, le verità della vita comprensibili solo attraverso la morte, lievito di una storia da riscrivere, ora che è arrivata la stagione della bassa marea.
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