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La tragica storia di Emanuele e il nostro senso della giustizia nel romanzo di Daniele Vicari

A Tecchiena, frazione di Alatri (in provincia di Frosinone), si conoscono tutti. Emanuele Morganti è un ragazzo di 20 anni, vive qui con la sua famiglia e ha una fidanzata, Kitty. La sua storia, il racconto della sua tragica fine, diventerà lo specchio di questi tempi in cui i social dettano la linea e vomitano rabbia. La notte del venerdì 24 marzo 2017, Emanuele subisce un durissimo pestaggio da un branco di persone fuori da una discoteca. Non è violenza, si tratta di un massacro. Due giorni dopo, in ospedale, senza aver mai ripreso conoscenza, Emanuele muore a soli vent'anni. La provincia e la sua violenza, la provincia e le regole non scritte, la provincia - ancora una volta, sì - e la banalità del male che ci sfiora dalla televisione e dai titoli dei giornali. Da qui parte il romanzo-reportage del regista Daniele Vicari, “Emanuele nella battaglia” (Einaudi) per radiografare l'Italia.

Vicari - regista classe '67 che ha diretto “Diaz. Don't clean up this blood”, “Velocità massima”, “La nave dolce” e “L'orizzonte degli eventi” - segue le mosse di due donne ovvero Melissa, la sorella, e Lucia, la mamma di Emanuele, «due moderne Antigoni», scrivendo del dolore familiare perché quel ragazzo per lui non è semplicemente un nome, ma qualcuno che conosce bene.

Un libro duro, capace di raccontare l'ombra, la linea del male che ci affascina negli eroi delle serie tv, scivolando in una rabbia malcelata verso chi è come noi eppure, fatalmente, diverso perché povero e giunge dall'altra parte del mare. Vicari - che nell'ambito di un lungo tour siciliano, oggi presenterà il libro a Messina - ci consegna un grido d'aiuto: quando le telecamere si spengono, quando la marea dei flash si ritira, il dolore resta ancora lì.

Perché ha scelto di raccontare questa storia?

«Conoscevo Emanuele. Ho visto la sua foto sulla prima pagina del giornale e in quel momento ho subito uno spaesamento profondo. Da lì è cominciato un viaggio, non dalla ragione ma dalle emozioni provate sulla mia pelle».

Nel libro seguiamo Melissa, la sorella di Emanuele, condurre un'inchiesta ma i social furono più lesti e cominciarono subito a sputare rabbia e pregiudizi.

«Dopo la morte di Emanuele ci furono personalità politiche di primo piano che cavalcarono lo sconcerto. La decisione di fare campagna elettorale sul sangue non è un atto incivile ma un gesto vomitevole, diciamolo chiaramente. E così, il libero cittadino altro non fa che replicare questo ragionamento nel suo quotidiano. Il risultato è che dopo ogni fatto di cronaca nera c'è un'esplosione di violenza online, un elemento di post-modernità che esplicita la scomparsa dei freni inibitori».

Cosa significa?

«Puntualmente, gli account con identità false cacciano fuori una ferocia che, nella solitudine del rapporto con la virtualità, scavalca tutte le istituzioni e fagocita il dolore altrui senza nessun rispetto».

Finché l'interesse piano piano va scemando. Quando le telecamere dei talk show si spengono, cosa rimane sul campo?

«Un silenzio assordante che mi ha spinto a stare accanto alla famiglia Morganti. Provate ad immaginare cosa accadde nella mente e nel cuore dei consanguinei quando videro alla televisione le foto sorridenti di Emanuele carpite dai social. La loro gestione del dolore e l'elaborazione del lutto sono state stravolte e lo racconto seguendo i gesti di Melissa e Lucia. Sono due Antigoni, due donne che si caricano sulle spalle il peso del lutto, della necessità collettiva di comprendere le dinamiche dei media. Al posto di Emanuele poteva esserci chiunque, è vero. Ma noi, come avremmo reagito?».

Nel 2012 uscì “Diaz”. È servito fare quel film?

«Credo di sì, ma non è una risposta consolatoria, perché da allora ad oggi la situazione è nettamente peggiorata. Anche nelle altre pellicole mi sono sempre occupato delle dinamiche di potere e del loro impatto sulle nostre vite. Il crollo dello Stato di diritto cui abbiamo assistito a Genova, oggi produce un ragionamento preciso: se arrivano degli stranieri, pur non avendo compiuto nessun reato, perché non possiamo metterli in carcere? O ancor peggio, dentro i Centri di Identificazione ed Espulsione, in cui manca qualsiasi controllo sociale a differenza delle carceri. Ecco, un passo alla volta, accade che l'idea stessa della sospensione dello Stato di diritto entri nel nostro inconscio, venga accettata e così facendo, mi spiace dirlo, dai fatti del G8 di Genova ad oggi, ci troviamo in una condizione assai peggiore e molto pericolosa».

Il ritorno all'uomo forte vagheggiato sui social, e non soltanto, la spaventa?

«È un desiderio figlio della sensazione di vivere nel caos, ovvero che i diritti e i privilegi acquisiti siano in pericolo. L'esempio lampante è ciò che sta accadendo in Emilia-Romagna, uno dei posti in cui si vive meglio in assoluto eppure si è messa in atto una propaganda elettorale molto efficace, mirata a rispondere alle inquietudini delle persone, radicate nella coscienza collettiva pur senza alcun riscontro nella realtà dei fatti. Non è un caso che nei paesi dell'Europa del Nord, sostanzialmente senza immigrazione e con un generale benessere, stiano rinascendo i partiti filo-nazisti. È una precisa dinamica culturale, basta saper toccare i temi giusti per scatenare la paura. E chi fa il nostro mestiere e decide volontariamente di sottovalutare o giustificare questi fenomeni, si prende una grossa responsabilità».

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