Sia pure in maniera sempre più disgregata, in Calabria, Sicilia e altre regioni del Sud continuano tuttora a svolgersi feste e riti del periodo invernale. Si tratta di occasioni in cui la dimensione intima, raccolta, familiare, alimentare si discosta notevolmente da quella più partecipata, spesso turisticizzata, delle feste estive. Un tempo queste feste, collocate nel lungo periodo di passaggio dall’inverno alla primavera, vedevano intere comunità ritrovarsi attorno a fuochi rituali, santi patroni, sante e madonne miracolose, e ristabilivano un legame con la produzione, la terra, l’acqua, i boschi, le divinità, le persone, i defunti. Ancora oggi in Calabria sono molto diffusi i culti di Santa Lucia il 13 dicembre, di Sant’Antonio abate il 17 gennaio, della Candelora il 2 febbraio, di S. Biagio il 3 febbraio (a Sambiase, Serra S. Bruno, Plaesano), S. Agata il 5 febbraio (Filogaso) e S. Leone il 19 febbraio (Saracena). Un discorso a parte meriterebbero le feste di Carnevale e quelle per S. Giuseppe, diffuse in tutto il Sud. In queste feste, ma anche in quelle estive, non è raro udire i commenti «siamo ogni anno di meno», «non torna più nessuno», «il paese è spopolato». Sono occasioni per contarsi, per misurare il vuoto che circonda case, rughe, comunità; ma anche per tentare di “resistere” o di avviare, a partire dalla “tradizione” (da intendersi sempre mobile, dinamica, aperta), nuove forme di socialità o nuove iniziative economiche. Non certo pensando che si possa tornare a un passato comunque da non mitizzare, ma per immaginare nuove comunità possibili. A proposito della festa di Sant’Agata, Dorsa rileva alcuni aspetti di relazione tra la cucina sacrificale in Grecia e la tradizione greco-latina della Calabria. In occasione di questa festa, in molti paesi si svolgevano riti cruenti, veri e propri sacrifici la cui vittima poteva essere un montone o un vitellino. Adornato di nastri e di fiori, veniva ucciso da gruppi di giovani, con abbondante spargimento di sangue sui sacrificanti. La santa, martirizzata e mutilata, assurgeva quasi a divinità protettrice dell’animale sacrificato in maniera rituale. Ho assistito quest’anno alla processione di Sant’Agata a Filogaso, spostata al 9 febbraio per l’inclemenza del tempo. I balconi delle case sono addobbati con panni recanti l’immagine della Santa. Una donna butta i confetti davanti alla statua, in memoria di quando venivano scagliati con forza contro l’effige. Donne e uomini, ragazze e bambini della Confraternita della Madonna del Carmine portano in processione la Santa Patrona. «Un tempo – mi dice una donna – dovevate vedere i bambini che si lanciavano per prendere confetti. Adesso, chi li vuole i confetti?». Un signore avanti negli anni aggiunge: «Una volta era, davvero, festa. Qui tutte si chiamavano Agata. Adesso solo una bambina ha avuto il nome Agata. Va bene che non nascono bambini, ma le poche che nascono si chiamano come quelle della televisione e delle canzoni». Chi assiste a questi riti potrebbe parlare di residui, permanenze di paesi che si svuotano e che tanto vale abbandonare al loro destino. Credo invece che persino un luogo con un solo abitante vada rispettato, curato, considerato parte di un territorio più vasto. La parzialità di certe visioni etnocentriche e urbanocentriche mi sembra emergere con chiarezza di fronte ai problemi dell’abitare che riguardano anche le città, con centri storici svuotati, periferie cementificate e prive di spazi sociali. Una diversa attenzione alla complessità di quanto accade nel proprio mondo è un imperativo etico ed estetico che riguarda tutti, non solo chi vive nei piccoli paesi, ma anche chi abita nelle metropoli, nelle banlieue. «Riabitare i luoghi» è il problema dell’umanità: non per guardare al passato, ma per pensare il futuro. I “vuoti” di oggi potrebbero diventare i “pieni” di domani e viceversa. Abbandonare i paesi interni al proprio destino significa creare una frattura tra montagna e centri urbani che può avere conseguenze gravi. Le recenti tragedie di Crotone, Soverato, Cavallerizzo, Maierato ci ricordano che il territorio calabrese è un insieme da proteggere, collegare, curare, senza creare separazioni. Occorre un pensiero complesso. A dispetto di tante retoriche, il “restare”, legato al “partire” e al migrare, non ha nulla di pacificato, comporta dolore, sacrificio, rinuncia, sentirsi stranieri ed esuli in patria, opposizione a un potere che devasta. Ma il “sacro” è qualcosa che resiste solo nei piccoli centri o non cerca invece di emergere anche nelle città o nelle metropoli, in cui spesso è difficile vivere? A Catania, in onore di Sant’Agata si celebra la terza festa religiosa più importante al mondo. Venerata dal 251 dopo Cristo, in città la santa è l’“influencer” più seguita di tutti i tempi. Eppure, come scrive Silvana Grasso in un interessante articolo su Repubblica, Sant’Agata non viene “postata” su Instagram, al pari di tante (o tanti) sedicenti o aspiranti protagonisti dei social, che espongono i propri corpi come mercanzia. Il suo corpo è un simbolo di martirio, assieme a quelli di Lucia e Rosalia, che potrebbe ricollegarsi all’odierna presa di coscienza del femminicidio. Le tre Santuzze sono rilette, anche sui social, come tre donne eversive, protofemministe, che hanno avuto il coraggio di dire no al potere dei maschi realizzato sul corpo femminile. Già Verga scriveva che, per la festa di Sant’Agata, le signore potevano vestire un abito che le copriva integralmente per andare tra i cittadini, molestarli, toccarli, esigere regali, senza che i rispettivi padri o mariti potessero protestare. Uno spazio di libertà femminile sottratto agli uomini. Mi vengono in mente le donne di cui parla Henry Swinburne che, a fine Settecento, si fingevano “indemoniate” per essere portate alla festa di S. Domenico di Soriano. In un altro contesto di emarginazione di genere, penso allo spazio di espressione e di tolleranza rappresentato dalla festa della Madonna di Montevergine, “Mamma Schiavona”, per i femminielli napoletani di un tempo e le persone transgender di oggi. Forse questi riti, che ancora resistono, potrebbero essere riletti in maniera diversa anche per ascoltare le voci oppositive delle donne contro il dominio di una società patriarcale. Certo, le feste di oggi sono diverse da quelle del passato, eppure sembrano comunicare un bisogno di nuova presenza dei paesi e delle città, dei luoghi abbandonati e delle metropoli. Il pensiero di nuove comunità in cui tutti possano essere protagonisti. I “Sacri Monti”e la Madonna Nera Oggi alle 9:40 su Rai1 «Paesi che vai...» supera i confini italiani. Livio Leonardi, ideatore e conduttore, condurrà il suo pubblico sui sentieri dei Sacri Monti lombardo-svizzeri e della Madonna Nera. La solennità della zona ha creato nel tempo le condizioni ideali per la nascita dei Sacri Monti, particolarissimi percorsi devozionali. Situati in angoli incontaminati, essi creano un legame magico con la natura che li circonda, costituendo un tesoro unico al mondo, che l’Unesco ha difatti riconosciuto «Patrimonio dell’Umanità».