Quel telefono nel vento per parlare con chi è scomparso nel il romanzo di Laura Imai Messina
In Giappone esiste un luogo molto particolare. Si trova sul fianco scosceso di Kujira-yama, la Montagna della Balena. Qui si spalanca un giardino, chiamato Bell Gardia e proprio al centro c'è una cabina, con un telefono non collegato che trasporta le voci nel vento. Ogni anno moltissime persone si recano lì, alzano la cornetta e iniziano a parlare con chi hanno perso. Ecco lo spunto da cui nasce “Quel che affidiamo al vento” (Piemme, pp.248 €17,50) il nuovo romanzo della scrittrice Laura Imai Messina che, dopo essere stato un caso alla Buchmesse di Francoforte, è entrato direttamente nella top-ten di vendita italiana. Romana, la Imai Messina ha costruito il proprio futuro e gli affetti in Giappone dove insegna in una delle più prestigiose università di Tokyo. Il romanzo affronta la ferita nazionale dello tsunami dell'11 marzo 2011 e proprio nel giardino Bell Gardia una donna di nome Yui incontrerà Takeshi, un medico che vive a Tokyo e ha una bimba di quattro anni, muta dal giorno in cui è morta la madre. Quanto amore occorre per guarire dalle ferite del passato? Laura Imai Messina racconta un microcosmo fragile ma pieno di speranza e dopo aver scritto diversi romanzi - nonché il saggio “Wa. La via giapponese all'armonia” (Vallardi) - in queste pagine si muove lieve, in bilico fra lacrime e sorrisi, puntando al cuore del lettore. Del resto, quando non troviamo le risposte, quando il dolore non si placa e la ragione gira a vuoto rischiando di impazzire, dobbiamo essere pronti a cambiare prospettiva, consegnando al vento le nostre parole. Quando ha scoperto questo giardino? «Nel 2011 ho letto di questo luogo per la prima volta. Le persone si recavano lì da tutto il Paese per alzare la cornetta e parlare liberamente con i propri defunti. Un luogo sospeso fra realtà ed immaginazione per provare a ricucire il rapporto con la perdita. Ma c'è voluto del tempo perché nascesse il desiderio di scrivere questa storia». La cabina telefonica cosa rappresenta per la sua Yui? «Non è semplicemente un oggetto fisico che si trova in quel giardino, ma molto di più. Per Yui rappresenta un viatico per potersi rimettere in cammino, un'ancora di salvataggio che vale anche per i tanti che si recano lì in pellegrinaggio. E per quella cabina, quando la furia degli elementi della natura è pronta a scatenarsi, lei sarebbe pronta persino ad immolarsi. Ovviamente siamo al paradosso, ben lungi dalla ragione però mi interessava raccontare sino a che punto possiamo spingerci per difendere simbolo su cui, come in questo caso, riversiamo grande empatia e un ancoraggio sentimentale in un momento di difficoltà personale. È un contrasto affascinante…». Ovvero? «Anche la rappresentazione fisica dell'amore è diversa in Giappone. La passione è passione a tutte le latitudini, ma le esternazioni in pubblico sono altra cosa. In Oriente i sentimenti sono vissuti in modo contenuto e morigerato. Per le strade di Tokyo gli innamorati si tengono per mano con candore». Da italiana in Giappone, scrivere dello tsunami è stata una grande sfida? «Senza dubbio. Ambientare un romanzo in questo Paese è stato un grande salto. Lo tsunami è una ferita nazionale che continua a farsi sentire nella vita quotidiana. Mi sono lungamente documentata sulle testimonianze dirette, necessarie per avere il polso delle reazioni della comunità e dei bambini. Scrivere è stato emotivamente impegnativo». Il suo libro è stato un caso internazionale con i diritti esteri già venduti in numerosi Paesi. Arriverà la traduzione nipponica? «Sì. Ed è rarissimo che in Giappone pubblichino libri sul loro Paese scritti da occidentali. È davvero molto importante essere riconosciuta come una voce capace di raccontare il mio punto di vista su questo Paese che mi ha accolto». Alla Buchmesse di Francoforte il suo libro è stato fra i più contesi… «Credo sia anche merito dell'universalità del tema trattato. Abbiamo tutti dei lutti e delle storie interrotte con cui fare i conti. Le persone che hanno condiviso con noi un pezzo di strada ci mancheranno per sempre e a questo si associa la poesia di un luogo suggestivo. Soprattutto, volevo trattare questo tema normalizzandolo, senza scivolare nel patetico perché la morte fa parte della vita». Parlare di perdita non è mai semplice. Cosa possiamo trarre da una prospettiva orientale? «Non c'è una separazione netta. Per quanto dolorosa, fa parte del ciclo della vita e prenderne atto ci aiuta ad elaborare tutto. Non si tratta di vivere nei ricordi ma del continuare a sentirle vicino a noi. Il giardino e il telefono del vento, a mio avviso, ci mettono davanti ad un'evidenza: anche ciò che non vediamo, esiste. Le persone importanti continuano a parlarci dentro e noi dobbiamo essere pronti ad ascoltare, aiutandoci con l'immaginazione e il ricordo». Scrive che “la felicità può essere pratica”. Crede sia davvero così? Aiuta avere un approccio semplice alle grandi domande? «Una felicità pratica è più sicura. Una felicità più eterea, invece, richiede un lavoro mentale che non sempre siamo in grado di fare. La concretezza può aiutarci a trovare la strada giusta. Accade proprio così nel mondo dei bambini in cui la felicità è fatta di piccole cose ed oggetti a portata di mano». La narrazione è intervallata da una narrazione digressiva fatta di particolari a margine che riempiono il contesto. Come mai questa scelta? «Ho inserito una scaletta musicale o il racconto di alcuni oggetti citati nel testo. È stato un bisogno sorto a posteriori con l'intenzione di spezzare la narrazione. Paradossalmente, spostando lo sguardo, è più facile entrare dentro la storia e ci permette di andare avanti con la consapevolezza che arriveranno le lacrime e, infine, tornerà la gioia».