La conosciamo tutti, Matilde. È la compagna di scuola grassa, quella che alcuni, in classe, tormentavano. È la compagna di palestra grassa che si affanna sul tapis roulant, nel viavai di splendidi corpi scolpiti, e sa di certi sguardi che la raggiungono. È l'amica alla quale magari hai fatto un discorso, e volevi aiutarla davvero, ma le hai detto che è tutta questione di forza di volontà, e lei annuiva. E sei stata brava, evitando di dire la parola “grasso”, parlando con circospezione di “sovrappeso” e “massa corporea”, e chiedendole di colludere con te sul fatto che, in fondo, il corpo è solo questione di volontà e di controllo. Di colludere con te sul fatto che il modello di bellezza è uno solo, e non si scappa: magro. Che probabilmente vuol dire felice. E infatti anche nelle storie che ci raccontiamo, in tanti film e romanzi, l'equazione è questa: grasso-infelice, magro-felice, e basta diventare magri per essere felici e sposare il principe. E invece no. L'equazione è sbagliata, e noi di Matilde non sappiamo nulla di quello che crediamo di sapere, di quello che crediamo che dimostri quel suo corpo così “estremo” (e ci sono certi programmi tv che ce li presentano, i corpi di tutte le Matilde, solo per mostrarci il cammino di espiazione e volontà che redimerà Matilde, e tutti noi, spettatori cannibali). Ora di Matilde possiamo sapere di più. Leggendo un libro che è anzitutto «un vortice, un gorgo» che ti attira dentro la storia di Matilde e del suo corpo, della sua famiglia sbilenca, dove coesistono grandi amori e grandi delusioni, una famiglia in cui si superano tutte “le dosi consigliate”, anche perché «Matilde è figlia d'una donna della generazione farmaceutica», quella di “Prozac Nation”, quella che curava ogni disagio con una pillola. Lo ha scritto una giornalista, Costanza Rizzacasa d'Orsogna, che, tra l'altro, firma sul settimanale “7” la rubrica “anyBody. Ogni corpo vale”, in cui affronta, da una prospettiva diversa da quella del romanzo, le stesse tematiche: fat shaming, body shaming (parole che non hanno ancora una traduzione italiana soddisfacente), la condanna estetica ed “etica” dei corpi fuori norma, il bullismo contro gli obesi. “Non superare le dosi consigliate” (Guanda) è il suo primo romanzo, dopo il fortunato libro del 2018, dello stesso editore, “Storia di Milo, il gatto che non sapeva saltare”, una favola sulla diversità (che è un tema forte capace di legare tante cose, tante scritture di Costanza) il cui protagonista è il gatto Milo, che esiste davvero ed è un po' il daimon di Costanza, il suo “spirito amico” e indissolubile. Così come esistono davvero, nella storia di Costanza, tante delle cose che ci racconta, in prima persona, attirandoci dentro un tempestoso flusso di coscienza, Matilde, donna «di 46 anni e 91 chili», passata attraverso tanti “stati” e “forme” diversi, magrezza estrema e obesità, abbuffate e digiuni, compulsioni e illusioni, combattendo una furiosa lotta contro se stessa, la sua “fame” che è fame d'amore, i suoi pieni e vuoti - letterali, del corpo che si riempie e si svuota, violentemente, senza pace - che segnano giornate incredibili, dove indubbie affermazioni personali e professionali (Matilde, come Costanza, è una giornalista formidabile, un'allieva geniale di un'importante università americana, una scrittrice di talento) coesistono con ricoveri improvvisi, malori esplosivi, mortificazioni estreme. Ma non sarebbe giusto esaurire su questi temi così vistosamente perturbanti il valore d'un romanzo scritto con abilità e passione che è anche un “romanzo di formazione” e un romanzo familiare, un reportage psicologico di grande finezza, la costruzione (letteraria) d'un personaggio, Matilde - vittima e carnefice, bugiarda e autentica, fragile e rocciosa - che sfugge a ogni convenzione, dribbla ogni compassione, s'impone con una sua verità multiforme e sfaccettata. Perché Matilde non è Costanza... «Non è un'autobiografia - ci dice l'autrice -, ho scritto un romanzo e non un memoir perché ho pensato che spersonalizzando, creando un personaggio che fosse un alter ego non sarebbe stato possibile liquidare la cosa come “la storia di Costanza”. Matilde ha molte cose in comune con me ma non coincide con me: tutti possono immedesimarsi, la sua può diventare una storia di tutti. I disturbi alimentari, l'insicurezza sul corpo riguardano tantissime persone. Ho voluto scrivere un libro sul dolore, sulle persone che non hanno amore ma lo desiderano. Che hanno un vuoto riempito dal cibo. Io volevo far vedere il dolore di coloro che combattono con questi mostri dei disturbi alimentari». Cos'è per te il dolore, questo dolore? «La vita delle persone obese è dolorosa in ogni momento, dall'attimo in cui si svegliano: dalla difficoltà di movimento, di non riuscire a indossare una calza, di non trovare cose che ti coprano, scarpe che ti entrino. Di non poter fare cose comunissime, semplicissime. Un dolore continuo. A cui aggiungi il fatto che esci di casa e ti bombardano di dileggio, ti tirano le pietre. E allora non resta che chiudersi in casa, dove ti senti protetto, ma lì c'è il frigo, e il cibo. E si ricomincia. Un circolo vizioso. Se capissimo questo dolore, se rispettassimo queste persone, risparmieremmo loro qualcosa». Un dolore che comincia dalle parole... «La stessa classificazione medica di “obesità mostruosa” è violenta. Il dileggio, la gogna a cui è sottoposto l'obeso è una questione morale, prima che estetica: è una condizione che viene associata a vizi. “Sei pigro”, ti dicono, “non hai forza di volontà”. Sono mostruosi cliché. Come quello di maltrattare gli obesi, per indurli a mettersi a dieta, a moralizzarsi. Il “fat shaming” raddoppia il rischio di ingrassare ancora. Non è un deterrente ma un motore. E mentre altri tipi di discriminazione non aumentano o diminuiscono, la discriminazione contro i grassi va aumentando. “Grasso” è una parola che va rivendicata: dobbiamo detossicizzare la parola “grasso”. Io sono grassa, e allora? Posso essere grassa e anche felice. Il cliché grassa uguale infelice, magra uguale felice non è vero. Sono stata infelicissima quando ero magrissima. Ora voglio essere felice». Cos'è per te la bellezza? «C'è stato un periodo in cui sono stata bella, nella mia vita, a 30 anni - Costanza qui s'illumina. Ha occhi molto espressivi, e partecipa sempre con lo sguardo a quello che dice - Ero magra come a 18 anni ma donna. Eppure mi sentivo grassa e brutta, anche se non lo ero. Mi vedevo male, se solo mangiavo una piccola cosa in più. La mia cena era un aperitivo, da sola. Poi sono diventata obesa, e adesso, da quando ho deciso di accettarmi, io sono contenta. Ho messo un rossetto rosso, che mai avevo messo prima, e mi sono vista molto bella. Ho fatto un video e poi altri, e mi sono sentita bella. La bellezza è anche sorridere. Per moltissimi anni non ho sorriso, ho solo pianto. Mi sono imposta di sorridere. Un modo nuovo di vedermi: a un certo punto mi sono detta che devo essere accettata come persona, indipendentemente da quanti chili ho addosso». Perché sì, la felicità ha tutto un suo peso specifico, e Costanza, attraverso Matilde, ce lo fa intravvedere. E vale per tutti, per tutte le Matilde che abbiamo in noi, grassi o magri.