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“Corpi speciali”, nel libro di Francesca D'Aloja ritratti di icone ed eroi

Francesca D'Aloja

Come raccontare Vittorio Gassman, Laura Antonelli, Dino Risi e Albert Camus senza mai scivolare nell'agiografia o nella morbosità? Scansando le consuete biografie, Francesca D'Aloja in “Corpi speciali” (La Nave di Teseo) ha scelto di tessere ritratti in punta di piedi, mescolando pubblico e personale, consegnandoci scorci della propria memoria privata, aprendo gli archivi fotografici, accostando al nostro orecchio di lettori curiosi fatti più o meno noti.

Soprattutto, ha scelto di svelare anche la tragica bellezza dei perdenti - Ernest Henry Shackleton, Jan Karski, Lucia Joyce - quei “corpi speciali” che danzando sul crinale sono sconfitti dalla vita per poi essere celebrati nella memoria.

Scrittrice, attrice e regista, Francesca D'Aloja - dopo “Cuore sopporta” e “Otto giorni in Niger”, scritto con Edoardo Albinati - torna in libreria (che, vi ricordiamo, sono chiuse ma spesso fanno servizio a domicilio, e comunque esistono online) con un libro composto da scorci di vita. Sul momento attuale, afferma: «Siamo in un momento paradossale, sembra di vivere immersi in un racconto di Philip Dick».

Chi sono i Corpi Speciali? Cosa possiamo imparare da loro?
«Sono un esempio di resistenza e di coraggio, alcuni di loro ci mostrano quanta dedizione serva per inseguire la propria strada».

L'ultimo è Shackleton, come mai?
«Oltre lui non può esserci nulla. Nel 1914 provò ad attraversare il continente antartico, non vi riuscì ma mise tutti in salvo. Ha fallito, certo, ma è il più grande vincente fra i perdenti, raggiungendo e superando i limiti della resistenza umana».

E poi Jan Karski?
«Un altro nome importantissimo. Nel libro ci sono Vittorio Gassman e Dino Risi che attraggono subito in una prima lettura ma poi emergono personaggi eccezionali che meritano di stare nel pantheon, proprio come Karski. Racconto il suo tentativo di far luce sull'orrore della Shoah, bussando alle porte dei potenti ma nessuno crederà alla sua testimonianza davanti al mondo. Il suo controcanto è Binjamin Wilkomirski che, invece, raccontando di essere un bambino sopravvissuto all'Olocausto, mentì ma fu creduto da tutti».

Cosa c'è dietro la maschera dell'artista? Come si raccontano icone del calibro di Laura Antonelli e Vittorio Gassman?
«Ogni racconto di faccende intime e personali entra in una zona proibita e parlando di persone che non ci sono più si corre seriamente il rischio di dissacrarne la memoria. Di questo ero consapevole. Nel caso di Laura Antonelli (di cui l'autrice tesse un ritratto a più riprese, cogliendone la parabola, dal grande successo sino alla rovina economica e alla morte in povertà, ndr), io personalmente mi sento colpevole di non averla aiutata. Al di là della celebrità, racconto una donna che rimane sola. Osannata e desiderata, sfiorita la bellezza, venne accantonata dal mondo dello spettacolo in modo brutale. Ne ho scritto per provare a risarcirla del dolore subito».

E poi la storia struggente di Lucia Anna Joyce…
«Di Lucia, figlia amatissima di James Joyce, esiste pochissimo materiale biografico. La mia ricerca parte da una foto in cui questa bellissima ragazza indossa in scena un costume da sirena. A trentatré anni avrebbe già fatto il giro dei manicomi di mezza Europa, persino Jung provò a curarla senza capirci nulla. Il legame con il padre era tale che il loro linguaggio segreto riverbera nella sua opera, nel codice dei suoi libri su cui ancora oggi si affanna la critica europea e quella stessa foto, scattata al culmine della sua bellezza, venne trovata nel portafogli di un uomo che l'aveva sempre amata, Samuel Beckett. Ma tutto ciò che riguarda Lucia venne occultato e poi bruciato dal suo unico erede, Stephen, che ha combattuto una folle battaglia contro biografi, studiosi e accademici ai quali ha proibito l'accesso al prezioso patrimonio familiare, arrivando a minacciare azioni legali contro il Governo irlandese per impedire una pubblica lettura di Ulisse durante un Bloomsday. Una vera follia».

Nel libro, tra l'altro, dice che l'anagramma della parola «teatro» è «attore».
«Mi diverte anagrammare. Ma questa è stata una vera illuminazione e, a pensarci, è perfettamente sensata».

A proposito di palcoscenico e rituali, lei dichiara di amare la corrida e nel secondo capitolo racconta un samurai moderno, José Tomás.
«È un leggendario matador. In quelle pagine mi rivolgo al lettore non per parlare del combattimento uomo/toro come metafora della condizione umana (Francesca D'Aloja è autrice di un documentario dedicato alla corrida e i suoi protagonisti, “Sol y ombra”, ndr) o del fatto che senza la corrida, la razza del “toro bravo”, il toro combattente, si estinguerebbe. Parlo dell'uomo che è divenuto leggenda. So bene che è facilissimo cadere nel pregiudizio, del resto se quel pomeriggio non fossi andata a vedere la mia prima corrida a Valencia, anch'io mi sarei trincerata dietro luoghi comuni. E invece in quelle pagine racconto l'esplosione di una passione, celebro José Tomás che si è sempre ritratto davanti ai microfoni; un matador sfuggente che è sempre stato capace di incantare il pubblico, toreando con massimo rispetto del suo avversario e il suo corpo pieno di cicatrici ne è la prova».

Come possiamo difenderci dal panico attuale?
«Non mi focalizzo sul panico ma sul rischio di rigetto. Se ogni canale, ogni trasmissione, parla solo e soltanto del rischio pandemia, si rischia di non ascoltare più nulla e magari ci lasceremo sfuggire messaggi importanti. Ma proprio questo isolamento forzato, l'appello all'auto-responsabilità, potrebbe anche avere un risvolto inatteso… Sarebbe bello se la televisione alternasse i talk con gli archivi di film, concerti e documentari, offrendo la bellezza come rimedio al caos. Forse è un'utopia, me ne rendo conto».

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