Restare a casa ai tempi del Coronavirus è molto diverso dalla filosofia del restare prima di questa catastrofe che stiamo vivendo, che non è un’apocalisse, ma che all’apocalisse fa pensare. Per molto tempo mi sono occupato e ancora mi occupo di “antropologia della restanza”, di “quel che resta”, del “restare”; ho scritto libri, saggi, articoli – tra antropologia, storia, letteratura, psicoanalisi – su questi temi. Ho seguito e curato iniziative promosse in tutte le regioni d’Italia, soprattutto nelle aree interne, nei luoghi dello spopolamento e dell’abbandono, da gruppi locali, associazioni, comunità impegnate in iniziative di resistenza, resilienza, restanza, di rigenerazione.
Potrebbe sembrare, allora, che il mio «io resto in Calabria» di oggi sia una sorta di inveramento e di accettazione – come il risultato di una profezia – con facilità, quasi come un destino. E invece, l’essermi a lungo interrogato sull’etica, sulla bellezza, sulla necessità del restare – frutto di una scelta politico, culturale, esistenziale – rende ancora più doloroso e impegnativo fare i conti con un “restare” non per scelta, ma per necessità, per convinzione civile, per senso di responsabilità.
Perché la mia idea, la mia concezione, la mia pratica del “restare” non avevano nulla a che fare con staticità, immobilità, attesa, apatia, ma erano una scelta di vivere e di abitare diversamente, di stabilire un rapporto vero con i luoghi, immaginando il restare come un atto di inquietudine, di mobilità, di mutamento.
Restare – ho scritto mille volte – ha senso soltanto se ci si sente esiliati, sradicati, corsari, fuori posto nel luogo in cui si decide (a volte per caso) di vivere e di abitare. Sono stato e mi sono sentito fuori posto, ho molto viaggiato e molto camminato, mi sento parte di una “tribù nomade”, sono sempre errante e inquieto e, dovunque, anche da fermo mi chiedo «che ci faccio qui». Appartengo a una storia di mobilità, emigrazione, fughe, ritorni. Mio nonno paterno, Peppe, e alcuni miei zii sono stati decenni negli Stati Uniti, in Argentina, in altre parti del mondo. Mio padre l’ho visto a otto anni, quando tornava da Toronto, per dove era partito quando avevo appena diciotto mesi. I miei compagni di scuola e del paese fuggivano stipati nelle macchine a diecine, partivano tra i pianti dei familiari e dei vicini.
Toronto è stata una sorta di dilatazione della mia casa, delle mie “rughe”: è stata il mio paese altrove. Proprio in questi mesi, con Salvatore Piermarini, prima che ci lasciasse, stavamo sistemando foto e storie di quasi quarant’anni di esplorazioni nel nostro Paese Mondo di Toronto. Questo progetto procede grazie all’impegno e alla generosità di Alberto Gangemi.
Restare, per me, allora, è indissolubilmente legato alla partenza, al viaggio, all’emigrazione, ai ritorni, veri e immaginati. Restare, partire, tornare sono aspetti di uno stesso fenomeno che interessa tutte le parti del mondo e che nel nostro assume aspetti peculiari, essendo noi abitanti di luoghi che si spopolano quotidianamente e nello stesso tempo luogo di richiamo e di possibile accoglienza. E in “quel che resta” – nella ricerca di memorie, schegge, tracce, segni del passato – non ho mai visto la ricerca di un improbabile mondo perduto, magari un Eden incontaminato, perché non si torna indietro e perché noi partiamo sempre dal presente che abbiamo ricevuto e di quel presente non siamo responsabili, in quel presente dobbiamo inventare e cercare una strada, che non porta mai all’indietro.
“Quel che resta” per me, come ho scritto, significa cercare e raccogliere, con pietas, frammenti, memorie, storie, insegnamenti di un mondo scomparso per dare loro un senso nel presente, per riscattare un passato che spesso è stato rimosso, per avere alle spalle villaggi e universi a cui fare riferimento in un nuovo cammino. In questi giorni in cui tanti commenti oscillano tra nostalgia e mito del passato e concezioni apocalittiche, ottimismo a buon mercato con slogan che suonano «niente sarà più come prima», «tutto passerà», «questa è l’occasione per cambiare stile di vita», ho letto spesso tanta persuasione, ma anche tanta retorica. È da quando ero bambino che vivo situazioni per cui si dice che dopo quel certo evento tutto sarebbe cambiato. E tutto cambiava, ma nulla cambiava, perché l’umanità non sembra disponibile a trarre lezioni del passato, non sa fermarsi, passata la paura riprende a correre.
Non è che non abbiamo visto i limiti: è che non vogliamo rispettarli. Non è che non ci siamo fermati in tempo: è che l’uomo non sa fermarsi, autoregolamentarsi, fare scelte di sobrietà e di equilibrio, di rispetto per la natura e per l’ambiente, immagina di allontanarsi dall’animale fragile che è per diventare un Dio.
Non è che non ci sia stato chi abbia dato avvertenze, annunciato i rischi, indicato la corsa folle dell’umanità, cercato di affermare nuovi modelli e stili di vita, nuove pratiche, nuove forme comunitarie, il fatto è che non ci si responsabilizza se non di fronte al rischio estremo (e molte volte nemmeno dinnanzi a quello). Il fatto che poi a decidere che tutto potrebbe essere peggio di prima siano quelli che ci hanno condotto a questo peggio, gli irresponsabili che adesso vogliono la responsabilità degli ultimi, di chi nulla ha deciso o di chi è stato educato all’idea che tutto è possibile, che ogni bene è accessibile, che ogni successo è per sempre e gratis. Credo che dobbiamo farci carico delle macerie provocate da chi comanda e da chi decide, ma che dovremmo pretendere, davvero, non che tutto torni come prima, ma che tutto diventi meglio di prima, diverso da prima.
Ho pensato molte volte in questi giorni che tutto quello che resta del mio giorno, che tutto quello che farò, anche quello che scriverò da adesso sarà necessariamente segnato da quanto è accaduto. Credo che i miei stessi libri, pronti per la pubblicazione, o in corso di stampa, avranno un “sapore” e un “dolore”, un andamento diverso da quello che avrebbero avuto prima. Uno dei libri a cui stavo lavorando aveva un capitolo intitolato “La fine del mondo”, omaggio a De Martino, ma anche alla mia infanzia in cui ho ascoltato e vissuto storie di “apocalissi” sociali e culturali. All’inizio di questa pandemia mi era parso che raccontare il nostro mondo antico, quello delle madri e dei padri, non avesse più senso o andasse fatto in maniera diversa. Poi ho pensato che, forse, proprio adesso, per cercare di stabilire, comunque, un legame tra ieri e oggi, tra prima e dopo, tra oggi e un futuro incerto e aperto, le nostre storie possano avere invece un grande significato, un valore rigenerativo e anche strategie per recuperare una nuova presenza e per cercare nuove strade.
Proprio per cercare di ritrovare una presenza che leghi il passato e il presente, l’oggi al domani, ho pensato quali persone, quali storie, quali memorie vere, quali fatti accaduti vorrei portare con me nella «valigia della memoria e della speranza». Proprio in quest’ultimo anno ho perso mamma e Salvatore Piermarini, le due persone con le quali meglio avrei potuto commentare, condividere, ragionare. Ho pensato che loro, assieme alle tante altre persone importanti e reali, ci saranno, comunque, anche domani. Mi sembra bello che ci si scambi impressioni, sentimenti, ci si segnalino libri da leggere, musiche da ascoltare. Penso che sarebbe bello, istruttivo, rigenerativo raccontare, dinnanzi a questa “peste”, storie, persone e fatti di cui non possiamo fare a meno, che hanno segnato la nostra vita e la nostra memoria. Quali sono le vicende, le persone, le storie di cui oggi avvertiamo la mancanza e che vorremmo tenere con noi, anche “dopo”.
Più che meditazioni e riflessioni sull’oggi, mi piacerebbe leggere quanto oggi possiamo e vogliamo salvare del passato nostro e degli altri. Sediamoci, virtualmente, comunicando guardando dai balconi nuvole o strade o porte o monti, guardando dentro di noi – come e diversamente da come fecero i personaggi di Boccaccio – storie di fatica, di vita reale e dei mondi che comunque vorremmo tenere e portarci con noi, memorie e insegnamenti che ci arrivano dal passato, dal nostro vissuto, per un futuro che, ci auguriamo, verrà.
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