«Dante è colui che ci ha dato la lingua e dunque ci ha permesso di esistere. È stato un grande filosofo e scienziato del linguaggio che ha riflettuto, prima della Commedia, sulla potenza del linguaggio nelle due opere De vulgari eloquentia e Convivio, scritti contemporaneamente e poi interrotti per la Commedia che non è solo afflato poetico ma progetto consapevole di un’operazione linguistica». Così ci dice Francesco Sabatini, linguista, dantista e Accademico della Crusca, che plaude all’iniziativa di un Dante recitato sui balconi d’Italia e “rivelato” attraverso i media, perché «servono anche questi strumenti per comunicare, per far conoscere», purché «non ci si dimentichi la dimensione linguistica, soprattutto in questi giorni in cui bisogna dedicare attenzione al “sistema” più delicato, insieme alla sanità, della nostra società, e cioè alla scuola». Abbiamo interpellato Sabatini insieme ai dantisti Giovanna Ioli e Giuseppe Ledda e allo scienziato-umanista Edoardo Boncinelli, per riflettere sulla “fratellanza” con il sommo poeta che si rinnova in questo 25 marzo, «un Dantedì nato – ricorda Sabatini – in una mia conversazione telefonica con Paolo Di Stefano, pensando ai nostri giorni della settimana, lunedì, martedì e quel che segue, nati sulle forme latine lunae dies, martis dies, ecc. A qualcuno suonerà, a tutta prima, come una mascheratura di un’espressione anglicizzante con day. Non è così! E bisognava scansare il pericolo di un Danteday! Era forse vietato trasferire queste coniazioni in sintassi latina al nostro volgare? Non lo era allora e non lo è ora, a maggior ragione perché da un paio di secoli abbiamo bisogno di coniare migliaia di parole di ambito tecnico e scientifico secondo lo schema sintattico determinante+determinato. E poi ditemi se per indicare il giorno, la luce, ve n’è qualcuna fonosimbolicamente più bella del nostro, ormai solo nostro, “dì”, usatissimo da Dante; e accoppiabile a lingua di sì». E quando chiediamo quali versi sceglierebbe da recitare oggi, il professore indica i versi iniziali dell’Inferno in cui Dante scrive di essersi inoltrato nella selva oscura e quelli finali quando esce a rivedere le stelle. «Un segno di speranza per vedere una luce dopo la “selva”, perché Dante ci aiuta anche in questo». «Siamo privati del nostro mondo abituale e confinati in uno spazio che è insieme quello consueto e domestico, appunto la nostra casa, ma che divenendo un luogo in cui siamo costretti diventa alieno, o almeno reso alieno dal tempo continuo e di cui non si vede la fine in cui siamo costretti a starci. Così questa situazione di immobilità e di clausura si presta a essere vista paradossalmente come situazione di viaggio in uno spazio/tempo estraneo, al di là del nostro mondo abituale. Può diventare quindi occasione di viaggio in noi stessi, di riflessione, di confronto con altri esseri umani che ci parlano, come ombre dell’aldilà, da romanzi, poesie, film, opere musicali». Così ci dice Giuseppe Ledda, docente di Letteratura italiana all’Università di Bologna e autore di raffinati studi danteschi (“La guerra della lingua”, “La Bibbia di Dante” e il recentissimo “Il bestiario dell’aldilà. Gli animali nella Commedia di Dante”). E cita i versi dell’Inferno in cui a Dante impaurito per la lupa che «non lascia altrui passar per la sua via ma tanto lo 'mpedisce che l’uccide» (I, 90 e sgg.), Virgilio dice: «A te convien tenere altro viaggio per sostener la guerra sì del cammino e sì de la pietate». «Così – aggiunge il professore – dobbiamo come Dante “tenere altro viaggio” e trasformare questo momento di sofferenza e di preoccupazione in un'occasione di crescita interiore, di conoscenza di noi stessi, di liberazione dalla schiavitù delle cose che ci sembrano necessarie, di recupero della capacità di comprendere e di amare gli altri». Che Dante sia “contagioso”, e dal web o dai balconi o nell’intimità della lettura possa fare un “miracolo” è convinta Giovanna Ioli, una vita dedicata, tra gli altri studi, a Dante (dal 1989 collabora alle edizioni della Divina Commedia della SEI, per la quale sta realizzando la decima edizione). Già allieva negli Stati Uniti di Charles Singleton, dopo essersi avvicinata a Dante attraverso la sua tesi di laurea sui dantismi in Montale, ci dice che «Dante è vivo ed è nato per essere letto nelle piazze. E del resto Dante ha scritto la Commedia in volgare perché fosse rivolta a tutti, dall’artigiano al contadino allo scienziato. E mentre l’Italia era una selva di dialetti, lui, come scrive nel De vulgari eloquentia, “scovò” la “pantera profumata” nel toscano perché aveva le caratteristiche per diventare la lingua di tutti». Lo stesso Singleton – ricorda la studiosa, che è presidente della Fondazione Carlo Palmisano Biennale Piemonte che ha il pregio di portare Dante nelle Langhe – ogni mattina nella sua splendida proprietà del Maryland recitava sulla veranda il “suo” Dante rivolgendosi anche alle mucche e agli uccelli che si avvicinavano (da figlio di un contadino-cowboy dell’Oklahoma, non dimenticava le creature della natura). E la Ioli per “amore di Sicilia” propone i versi che Dante ha dedicato alla nostra isola, dai riferimenti alle sofferenze degli umani sbattuti «come fa l’onda là dove Cariddi che si frange con quella in cui s'intoppa» (Inferno VII, 19-24) alla luminosa presenza di Manfredi, «nepote di Costanza imperadrice, genitrice de l’onor di Cicilia e d’Aragona» (Purgatorio III, 112-117) per finire con l’omaggio alla «bella Trinacria, che caliga tra Pachino e Peloro» (Paradiso VIII, 67-75). E se Dante, come scriveva Montale e come ci ricorda ancora la Ioli, «è e resterà l’ultimo miracolo della poesia mondiale», per Edoardo Boncinelli, scienziato e umanista, fiorentino di nascita, «Dante è Dante, il padre di tutti noi, che rappresenta non solo la nostra lingua, ma la poesia e la cultura. Bisogna festeggiarlo non solo perché ci ha permesso di avere una lingua, ma per la sua capacità di sommare tutta la conoscenza di un tempo in cui circolavano pochissimi libri, riunendo nella Commedia tutte le discipline della conoscenza». Riguardo a ciò che Dante ci ha lasciato, il professor Edoardo Boncinelli, che con Massimo Arcangeli ha scritto “La forma universal di questo nodo” sul sapere scientifico del sommo poeta (e un altro libro sta scrivendo, sempre con Arcangeli), ci dice che di lui interessa non solo ciò che dice, ma come lo dice. E cita, parlando di coscienza, il verso «che vive e sente e sé in sé rigira» (Purgatorio, XXV, 75) per indicare il ritornare su di sé proprio della mente che conosce se stessa. Ma – aggiunge Boncinelli, che tiene in casa sempre il “suo” Dante a portata di mano, perché anche le cose “più piccole” che dice sono geniali – per uno scienziato i versi da scegliere sono quelli parenetici del Purgatorio: «O superbi cristian, miseri lassi, che, de la vista de la mente infermi, fidanza avete ne' retrosi passi, non v’accorgete voi che noi siam vermi nati a formar l'angelica farfalla» (X, 121-125) e gli altri, sublimi, del Paradiso, per spiegare il mistero dell’universo: «Nel suo profondo vidi… ciò che per l’universo si squaderna: sustanze e accidenti e lor costume quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’ i’ dico è un semplice lume» (XXXIII, 85-90).