Siamo una nazione intristita, schiacciata, stiamo vivendo giorni di apprensione di fronte a un pericolo oscuro, invisibile, e anche quelli di noi che l’hanno creata per altre situazioni, scoprono la paura. Forse cominciamo a capire qualcosa di quei popoli sfortunati che sul pianeta convivono quotidianamente, da anni, con la paura. Eppure, noi, i più “benestanti” e non in guerra, siamo più fragili e soggetti alla paura. Tutto a un tratto la routine quotidiana, frenetica o lenta, le abitudini acquisite, la “normalità” perdono il loro senso. Si ha paura del “buio”, proprio come di quell’oscurità che, nel Medioevo e nei secoli successivi, si addensava su città e campagne al calare del sole, quel “buio” fuori dalle mura di casa che oggi è un virus silenzioso che sembra dar ragione agli avvertimenti dei catastrofisti o alle fantasie letterarie e cinematografiche. Ma come affrontare le minacce paventate quando si presentano realmente? Come evitare di diventare consumatori della paura? Come trasformare la paura – così suggeriscono psicoterapeuti e sociologi – in una risorsa? Con energia e coraggio e responsabilità, considerando questa condizione del pericolo reale più formativa di quella in cui si ha timore di perdere le proprie sicurezze per un pericolo atteso o immaginato. Forse è tempo di stringere nuovi patti, nuove alleanze. E se ci alleassimo anche con i libri in questo tempo di “chiusura” forzata? Se mettessimo in pratica la biblioterapia?
García Lorca, nel suo discorso a Fuente Vaqueros, il suo paese natio, in occasione dell’inaugurazione della biblioteca comunale, ricordava come Fëdor Dostoevskij, quando era prigioniero in Siberia, scrivesse accoratamente alla famiglia di inviargli libri, molti libri, affinché la sua anima non morisse. Non chiedeva fuoco – diceva Lorca – per il gelo in cui viveva, né acqua per la sete che lo divorava, ma chiedeva libri, chiedeva orizzonti, cioè scalinate per salire sulla vetta dello spirito e del cuore. E se oggi viaggiassimo con i libri dal momento che non possiamo farlo fisicamente? Con i libri si può volare, ha detto Dacia Maraini qualche giorno fa in tv, ricordando tutto ciò che ognuno di noi potrebbe “scoprire” nella libreria di casa (reale o virtuale) e consigliando alcuni titoli di testi nei quali ci si confronta con la malattia, il dolore, la miseria.
La scrittrice, di cui riportiamo di seguito la nostra intervista, ricordava che si può volare nella Spagna picaresca del ‘500 con “Lazarillo de Tormes” (di autore anonimo) o nella Venezia afflitta dal colera di Thomas Mann con “Morte a Venezia”, o nel campo di concentramento di Buchenwald con “La scrittura o la vita” di Jorge Semprún, oppure con “Delitto Neruda” di Roberto Ippolito, nel Cile di Pablo Neruda, il poeta militante probabilmente fatto uccidere da Pinochet nell’ospedale in cui era ricoverato, e quindi riflettere con Costanza Rizzacasa D’Orsogna sul tema della bulimia con “Non superare le dosi consigliate”.
Signora Maraini, criminalità, disastri nucleari, cataclismi, precarietà del lavoro, epidemie, terrorismo. Ci troviamo di fronte a una società impaurita?
«Sì, e la differenza col passato sta nella facilità di comunicazione. Ormai non ci si spaventa più per i piccoli pericoli della zona in cui si vive, ma per i disastri che incombono sul mondo intero. Ne siamo subito informati e ci sentiamo coinvolti».
Ma esiste, secondo lei, uno stato globale di paura?
«Le paure certo si sono allargate e moltiplicate proprio perché, mentre nel mondo isolato ci si sentiva tranquilli se non toccati personalmente, in un mondo globalizzato siamo toccati da qualsiasi minaccia che riguardi l’universo».
Tutte le culture umane sono state contagiate dalla paura, da alcune paure epocali. L’essere umano è dunque, nonostante il progresso, lo stesso di sempre?
«La paura aiuta a difendersi. È un sentimento umano e giusto. Se però diventa ossessivo, non aiuta più, perché scatena gli istinti più animaleschi, di fuga e aggressività».
L’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa, disse Roosevelt nel suo discorso d’insediamento nel 1933. E il mondo avrebbe conosciuto tante paure negli anni a seguire. Lei, da scrittrice, come ha raccontato la paura?
«Sono d’accordo con Roosevelt. Un poco di paura è necessaria, altrimenti si diventa incoscienti, ma la nevrosi da paura è pericolosa e difficilmente arrestabile. Per quanto mi riguarda ho spesso raccontato la paura, sia nel romanzo “Colomba”, che in “Il treno dell’ultima notte”. Ora sto scrivendo un romanzo sul campo di concentramento e lì la paura è più che giustificata. Spero di raccontarla bene».
Ma qual è l’alternativa alla paura, la strategia per tenerle testa?
«L’alternativa a una paura cieca e irrazionale sta nel cercare di capire dove sta il pericolo, in cosa consista e trovare delle strategie per affrontarlo il meglio possibile. Quindi è necessario un atteggiamento di serena razionalità e di fiducioso coraggio».
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