Il signor Cardinaud amava la routine. Come dargli torto? Aveva sposato la ragazza più bella del paese, l'amava da sempre, come fosse la Madonna, e pazienza se lui non era stato il primo e se lei non era ancora illibata alla prima notte di nozze. Marthe era più di quanto lui potesse sperare. Per tenersela stretta l'aveva imbrigliata in un tempo sospeso, agiato, rinchiusa nella lucida teca della vita coniugale. Il suggello perfetto, il momento che lui amava di più, era il complesso rituale della domenica mattina. Usciva con il figlio Jean, passava sempre dal bar e poi a ritirare un vassoio di dolci e infine, dilatando al massimo i tempi, quando infilava la chiave nella toppa, era estasiato dall'odore dell'arrosto nel forno, dallo sfrigolare delle patate nell'olio: ecco l'intimo odore di casa e Marthe con indosso il grembiule ad accoglierlo. Hubert Cardinaud era un uomo senza troppe pretese, uno di quelli che non alza la voce e non pretende un bel nulla. Il suo capo lo illudeva bonariamente che un giorno lo avrebbe affiancato a condurre l'ufficio e lui fingeva di crederci, crogiolandosi nelle sue illusioni. Fin quando, una domenica come tante, rientrato a casa, l'arrosto in forno è bruciato e di Marthe non c'è traccia. Ha affidato la piccola Denise alla vicina e sono scomparsi anche tutti i soldi per l'affitto. Dov'è Marthe? Comincia così, con questo dilemma, “Il signor Cardinaud” di Georges Simenon, tradotto da Sergio Arecco e pubblicato da Adelphi, da cui nel 1956 Gilles Grangier ha tratto un film (La sang à la tête) con protagonista Jean Gabin. E non certo un caso se battagliando con migliaia di novità questo romanzo scritto nel 1942 ha scalato la classifica di vendite. I libri di Simenon sono una garanzia, un esempio di tecnica narrativa, una delizia per i lettori. Che sollievo incontrare la sua prosa misurata, priva di aggettivi ed eccessi, da cui l'autore eliminava volutamente tutto ciò che in un noir contemporaneo potrebbe facilmente consentirgli di divagare, aumentando il volume delle pagine, strizzando l'occhio a diversi personaggi mediante i flashback, finendo però per sacrificare la tensione. E invece Simenon ha sempre scelto una direzione ostinata e contraria. Inizi un romanzo - pescate a caso, “L'uomo che guardava passare i treni”, “La camera azzurra” o “Tre camere a Manhattan” - e in un lampo, salvo distrazioni da smartphone, vi troverete già nel bel mezzo della storia, lungo un piano inclinato al quale sarà difficile sottrarsi. Anche stavolta, come accade spesso nelle sue trame, ci troviamo in una amena provincia francese e la storia inizia già sul crinale: c'è un uomo perbene che sta per spezzarsi e prima che il suo mondo vada in frantumi si lancia a perdifiato in una caccia - bonaria, mai con intenzione di vendetta - deciso a riprendersi la sua amata, a testa alta contro la vergogna. A Hubert, Simenon non risparmia alcuna umiliazione e quando persino il suo stesso principale, sorridendo, gli fa capire che tutti sanno che Marthe ha lasciato lui e i due figli per scappare con Émile - il suo grande amore, uno spiantato pavido e violento - lui incassa il colpo e va avanti, con fierezza. Tuttavia, proprio in quel preciso momento cambia tutto. Nella sua mente scatta qualcosa, come l'otturatore di una macchina fotografica. Seguiamo Hubert da vicino, ne leggiamo le riflessioni e nonostante le mortificazioni vorrà sempre andare avanti sino a ritrovare Marthe. Ma poi, infine, cosa accadrà fra loro? Sbaglia chi considera questo romanzo come una prova minore. La perla è proprio il candore del protagonista che adesso sì, coglie i risolini quando passa in mezzo alla gente, poiché davvero «tutti sanno». Ma a lui non importa. E noi leggiamo e magari ci aspettiamo che al più tardi giunga persino una zampata maligna di esasperazione, una tardiva vendetta; invece, Hubert, è come uno specchio deformato. E in fondo, vorremmo somigliare un po' a quest'uomo buono, nonostante tutto.