«Rispettare le norme di isolamento tese al contenimento del virus, leggere, studiare, coltivare amicizie con gli strumenti della tecnologia. Ma soprattutto: coltivare progetti per il futuro».
Un dovere della speranza cui fa appello un intellettuale come Salvatore Settis, archeologo e storico dell’arte, nativo di Rosarno (nel 2000 gli è stato conferito il “Premio Rosarno Medma” e nel 2014 a Reggio Calabria ha ricevuto la laurea honoris causa in Architettura), già direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa (1999 al 2010) e del Getty Center for the History of Art and the Humanities di Los Angeles (1994 al 1999).
Presidente del Consiglio Scientifico del Louvre e membro del Deutsches Archäologisches Institut, della American Academy of Arts and Sciences, dell'Accademia Nazionale dei Lincei e del Comitato dei garanti della Scuola Galileiana di Studi Superiori dell'Università di Padova, il professore Settis è curatore con Carlo Gasparri della mostra “I marmi Torlonia. Collezionare capolavori”, la più prestigiosa collezione privata di sculture antiche, mostra prevista nella sede espositiva dei Musei Capitolini a Villa Caffarelli, a Roma, per il 4 aprile ma sospesa per le misure di contenimento del Covid-19. Instancabile sostenitore del fatto che città e paesaggio incarnano i valori essenziali per la democrazia (la Costituzione italiana con l’articolo 9 – ricorda – è stata la prima al mondo a dare al paesaggio e al patrimonio storico-artistico e archeologico un ruolo di primo piano nell’orizzonte dei diritti del cittadino), Settis ha particolarmente a cuore l’idea che attraverso la cultura si può creare comunità, un tema al quale, oltre ai numerosi saggi sul patrimonio classico e sulla classicità, ha dedicato, tra gli altri, libri come “Paesaggio Costituzione cemento. La battaglia per l’ambiente contro il degrado civile” (Einaudi, 2010), “Il paesaggio come bene comune” (Quaedam, La Scuola di Pitagora, 2013), “Architettura e democrazia. Paesaggio, città, diritti civili,” (2017), e “Cieli d’Europa. Cultura, creatività, uguaglianza” (Utet 2017), quest’ultimo contro i tanti segnali di una crisi che non è solo economica e politica, ma culturale, con il degrado che affligge monumenti e paesaggi e il diffondersi dei ghetti urbani.
Professore, la tecnologia e il progresso non ci salvano dalla paura, dalle paure, paura dell’altro, della natura, delle malattie, dei cataclismi, del nemico. Perché secondo lei? Siamo diventati più fragili o più egoisti?
«Ci siamo cullati troppo a lungo nell’illusione di un indefinito e inarrestabile progresso, in cui certe conquiste (per esempio il graduale allungarsi della vita, la qualità del cibo, la relativa stabilità dell’economia e del tenore di vita, i progressi della medicina…) dovessero metterci al sicuro da tutto. L’emergenza che stiamo vivendo ci sta svegliando da questo letargo, nel quale ci siamo adagiati dimenticando le nostre responsabilità. È un forte richiamo a pensare con la propria testa e (mentre ci difendiamo nell’immediato) a interrogarci su quali debbano essere le priorità da perseguire nel futuro».
Le città in cui viviamo, molte delle quali megalopoli iperaffollate, mentre i borghi e le zone rurali vengono sempre più abbandonati, sembrano veicolare le paure di massa, il contagio del virus e il contagio della paura. Come si vive oggi la città?
«L’architetto olandese Rem Koolhaas, che nel suo meraviglioso libro “Deilirious New York” fu il più intelligente e visionario cantore della vita nelle megalopoli, ha radicalmente cambiato idea, ed è diventato un fervente apostolo della campagna, annunciando la sua “conversione” con una grande mostra (Countryside. A Report), aperta il 20 febbraio al Guggenheim Museum di New York. Ma, quasi a dargli ragione, la mostra ha dovuto presto chiudere (come tutto il museo) a seguito delle misure anti-virus. È chiaro che la megalopoli sovraffollata favorisce il contagio, ma è solo questo il suo svantaggio? O dovremmo rivalutare non solo la campagna, ma la bellezza delle città storiche con la loro dimensione più a misura d’uomo?».
Le immagini ci parlano di paesaggi urbani “metafisici”, di cui, paradossalmente, scoprire bellezza e splendori, soprattutto attraverso i media. Come definire questo “nuovo” paesaggio nel quale ci sentiamo quasi spaesati?
«Una città vuota di persone va bene su una tela, non va bene nella vita. La città ha un corpo e un’anima, e se il corpo sono mura, strade, piazze, edifici, l’anima siamo noi, gli abitanti che la popoliamo con il nostro patrimonio di memorie, di aspirazioni, di desideri. Forse vedere le nostre città vuote e (magari, come è successo) le anatre che sostano a Piazza di Spagna ci aiuterà per un momento a scoprirne aspetti sconosciuti, ma dobbiamo saper custodire nella mente e nel cuore questa esperienza, perché quella bellezza venga preservata».
Dal punto di vista urbanistico e dal punto di vista del paesaggio rurale come si vivevano in passato le epidemie?
«La vasta esperienza letteraria della peste culmina, credo, nel grande romanzo di Albert Camus, La peste appunto: lì vediamo consumarsi la stessa tragedia che stiamo vivendo: al principio gli abitanti di Orano erano increduli, e chi avesse parlato di epidemia veniva messo a tacere. Intanto i cadaveri si ammucchiavano nelle strade e nelle case, ma la parola “peste” era ancora impronunciabile. E quando la città viene chiusa e il dominio della peste è ormai chiaro a tutti, all’istintiva difesa dell’iniziale incredulità subentra la rassegnazione. Non stiamo forse sperimentando qualcosa di simile?».
E cosa ci può insegnare tutto questo per il futuro? Lei stesso ha scritto “La bellezza non salverà niente e nessuno se noi non salviamo la bellezza».
«La bellezza non è solo un concetto estetico: è una misura di vita, un modo di essere, e in un Paese come l’Italia non c’è bellezza senza storia. La bellezza dei nostri paesaggi dev’essere anche la loro qualità rispetto alla salute: non per niente la nozione giuridica di ambiente in Italia risulta dalla convergenza di due articoli della Costituzione, quello sulla tutela del paesaggio (art. 9) e quello sul diritto alla salute (art. 32). È solo un caso che anche il CoViD-19 si sia diffuso più a fondo nelle zone dove l’atmosfera è più inquinata dal traffico e dalle industrie?».
Professore, come sta vivendo, lei uomo di cultura, uomo del fare, questa situazione, questo tempo sospeso?
«Rispettando le norme di isolamento tese al contenimento del virus, e usando al meglio la circostanza per “riprendere tempo”, leggendo, studiando, coltivando amicizie (anche se via skype….). Ma soprattutto: coltivando progetti per il futuro».
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