Una delle coscienze critiche del jazz moderno, Lee Konitz, si è spento a novantadue anni al Lenox Hospital di New York. Ne ha dato notizia il figlio Josh, attribuendo la causa della morte a una polmonite conseguente al Covid-19. Fu un grande classico, il grande sassofonista, che ben sapeva, tuttavia, che il segreto di ogni forma d'arte è quello di mettersi costantemente in discussione. Uomo di incontri, sperimentatore, Konitz non smise infatti di far evolvere la propria cifra stilistica, mantenendo sempre, nella sua lunghissima carriera, un rapporto quasi giocoso con lo strumento.
Nato il 13 ottobre del 1927 in una famiglia ebrea di Chicago, Lee Konitz iniziò la pratica musicale su una fisarmonica, già abbandonata agli undici anni in favore del clarinetto e del sax tenore, per dedicarsi infine al contralto qualche anno dopo. Nel '43, favorito dall'esodo massiccio di jazzisti per il fronte, poté considerarsi già un professionista, giacché suonava senza soluzione di continuità nelle orchestre da ballo. Nel suo intimo, tuttavia l'occhialuto ragazzo nutriva ben altre ambizioni. Era il jazz - sulla cui evoluzione, per sua stessa ammissione, non era troppo ferrato - ad attrarre la sua sete di ricerca, di libertà, di introspezione. Quando emerse improvvisamente nell'ambito del jazz più qualificato, nel 1948, si affermò che fosse l'unico altosassofonista dell'epoca a non emulare Charlie Parker.
Il suo stile era immediatamente riconoscibile, davvero nuovo, con un suono esile, smorzato, quasi privo di vibrato, sorvegliatissimo. E non suonare come il suo antagonista fu il ruolo che avrebbe continuato sempre a ricoprire in maniera semplice e sincera.
Senza i giovani musicisti che nella seconda metà degli anni Quaranta codificarono un approccio nuovo al jazz, il corso della musica sarebbe stato diverso da come poi si sviluppò. E di certo diversa e molto si sarebbe dipanata la parabola artistica di Lee Konitz senza aver incontrato alcune eminenze grigie di quell'epoca. Fondamentale fu in questo senso l'esperienza compiuta a partire dal '46, a New York, con Lennie Tristano, il padre del cool jazz, termine di una breve stagione stilistica - compressa tra la Scilla del bebop newyorkese e il Cariddi del jazz californiano - che fu malamente tradotto come “freddo”, ma in realtà sinonimo di freschezza, riflessività, intellettualizzazione.
E proprio perché “intellettuale”, il genere fu sempre definito, con un sottofondo di involontario razzismo, come movimento “bianco”. La frequentazione del cenacolo tristaniano fu assidua e fertilissima, ma non l'unica del periodo newyorkese. Nel 1947, infatti, il non ancora ventenne sassofonista entrò nell'orchestra di Claude Thornill, con la quale rimase poco meno di un anno. Compiendo anche il suo debutto discografico. Decisiva, in seno alla Tuba Band di Miles Davis, fu la partecipazione di Lee Konitz alle sedute d'incisione raccolte in seguito nell'emblematico album «Birth of The Cool».
I suoi primi dischi da leader li incise nel '49, richiamando consapevolmente il jazz della tradizione, ma inseguendo al contempo stimoli più astratti. Da allora non si sono mai arrestate né la sua inventiva né la sua vivace curiosità per sempre nuove avventure. Soggiornò in Europa. Fu ancora con Tristano in Canada nel '52 e suonò nell'orchestra di Stan Kenton e nei gruppi di Jerry Mulligan l'anno seguente. Poi, un numero infinito di registrazioni e tour in ogni angolo del pianeta. Insegnò, e si interessò anche al flauto e al sassofono elettrico. Grande fra i grandi, fu al fianco di Charlie Mingus, Bill Evans, Dave Brubeck. Ci furono per lui anche anni di oblio, avvolti da una patina di routine, dovuti anche auna sua posizione esclusivistica e selettiva.
Tra i jazzisti italiani con cui incise, oltre a Enrico Rava, si ricordano i pianisti Franco D'Andrea, Enrico Pieranunzi, Renato Sellani, Stefano Bollani. Lee Konitz, inoltre, si esibì più volte in Sicilia, di scena anche in Riva allo Stretto ospite di storiche associazioni musicali come The Brass Group e Accademia Filarmonica o, in maniera più informale, del non più esistente Circolo del Jazz. Non diradò mai la propria attività anche superati gli ottant'anni, facendosi accompagnare da un numero forse spropositato di strumentisti, diversi per latitudine e formazione, prediligendo la formula del duo.
Ma la sua curiosità e disponibilità riuscivano a riaccendergli quegli occhi indagatori che mimetizzava dietro lenti sempre più spesse, smessa da tempo quella sua aria da primo della classe, ironico e talvolta pungente, che lo aveva contraddistinto.
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