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Luis Sepúlveda, guerrigliero della parola: la sua scrittura un faro e una bussola

Luis Sepulveda

«Io come uomo sono rigorosamente etico, nella politica, nella famiglia, nell'amicizia. E come scrittore so di essere un creatore di bellezza. Mi piace quando la parola scritta crea bellezza e combatte il brutto. Voglio dare alla letteratura la stessa carica etica della vita e alla vita la stessa carica estetica della letteratura». Sono le parole di Luis Sepúlveda, morto a Oviedo a 70 anni, a causa di un nemico oscuro, un virus letale per lui che per tutta la vita aveva combattuto contro i virus ideologici.

Era nato nel 1949 dal papà cuoco e dalla mamma infermiera sorpresa in macchina dalle doglie e costretta a fermarsi nel Cile del Nord, in un alberghetto che si chiamava “Cile” (Sepúlveda era un sentimentale e ci tornò per dormire nella camera in cui era nato), e sembrava un destino per uno come lui che avrebbe vissuto con grande orgoglio e partecipazione il conglomerato fortemente democratico del suo popolo.

E chissà quante belle storie ci avrebbe raccontato, ancora, Luis (magari di fronte alla sua amata birra), di questo tempo diverso, di questo domani sospeso. Forse avrebbe fatto diventare il coronavirus una bella favola, una di quelle che, a cominciare dal primo romanzo, ”Il vecchio che leggeva romanzi d'amore” (Guanda, 1993), amava scrivere, come la “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” (Salani, 1996) o la “Storia di una lumaca che scoprì l'importanza della lentezza” (Guanda, 2013) o come l'ultima, la “Storia di una balena bianca raccontata da lei stessa” (Guanda, 2018, con la traduzione, come per tutti i libri dello scrittore cileno, di Ilide Carmignani), ambientata in una Patagonia estrema, con una balena saggia che prende la parola per ricordare agli uomini il rispetto della natura.

Tra le certezze che chiudevano il cerchio dei dubbi vi erano, per l'uomo, per l'ecologista (aveva fatto parte degli equipaggi di Greenpeace) e per l'intellettuale il rispetto dell'ambiente, la difesa della memoria, la denuncia dei dittatori, dei ladri, dei furbi, del neoliberismo sfrenato del nostro tempo. Una realidad de mierda - diceva -, alla quale opporre i valori sacri in cui Luis credeva, l'amicizia, la solidarietà, e, sopra tutto, l'amore, quello della sua vita, la moglie Carmen Jáñez, poetessa e perseguitata politica, prima sposata, poi “perduta” nei gorghi della violenza, quindi ritrovata e risposata. E quello della famiglia, dei figli, dei nipoti con i quali amava cucinare un buon asado (cuocere l'arrosto era compito del “vecchio”, come veniva chiamato Luis in famiglia), degli amici e della gente, termine ricorrente e ripetuto con pronuncia spagnola nei discorsi italiani di Luis.

La gente de bien che gremiva le sale dei luoghi in cui svolgeva le sue lezioni (Sepúlveda era stato una presenza assidua, in Italia, come giurato del Premio Grinzane Cavour, e come ospite del Salone del Libro di Torino, fino all'edizione 2019, di Pordenonelegge, di Taobuk a Taormina), la gente cui parlava con leggerezza, senza lussi e senza schermi, di ingiustizia sociale, di cattiva politica, di democrazia (o quel che si vuol far passare per democrazia), con la stessa voce delle persone che abitano i suoi libri, per essere la voce di chi non ha voce. La gente comune con cui alla fine degli incontri non mancava mai di fermarsi per un semplice como estás, mentre stringeva mani e scriveva autografi.

Come sicuramente avrà fatto anche in Portogallo, al festival letterario dopo il quale è stato ricoverato, alla fine dello scorso febbraio, in ospedale, a Oviedo, la città asturiana vicina a Gijón, dove Luis ritornava sempre dai suoi viaggi, il buen retiro che conteneva nel suo orizzonte tutti i Sud del mondo, perché «l'ostinata parola Sud» accompagnava come un talismano tutti i testi e tutti i discorsi del “compagno” Sepúlveda.

Compañero lui non aveva mai smesso di esserlo (anche ora che alla sinistra riconosceva mancanza di intelligenza politica e, per questo, rimpiangeva Gramsci) sin da quando, giovanissimo studente di teatro e drammaturgia, appassionato di calcio e militante del partito socialista nel suo Cile, aveva avuto il privilegio di far parte del Dipartimento di Sicurezza del presidente Salvador Allende. Un riconoscimento superiore a tanti onori che avrebbe avuto negli anni a venire, come amava ricordare con la sua voce calda sia nelle sue lezioni magistrali, sia negli incontri informali, a tavola come al bar, luogo-mondo, questo, da lui molto amato.

Una delle sue passioni, raccontare del sogno studentesco di essere parte di una trasformazione democratica: il '67 cileno che anticipava il maggio '68 francese, e poi il discorso del 4 settembre 1970 del suo presidente proprio alla Casa dello Studente del Cile, e quindi quel terribile 11 settembre 1973, quando Allende cadeva proprio nella Casa della Costituzione, quando appariva, con la connivenza vergognosa degli Usa - raccontava Luis - la vera faccia del demonio.

Tra tante desapariciones di compagni, a lui toccò vivere, a 24 anni, la prigione (un avvocato per consolarlo gli disse, un giorno, che aveva «una stupenda notizia»: la condanna a morte derubricata a 28 anni di reclusione), poi la scarcerazione grazie alle pressioni di Amnesty International, quindi, nel 1977, l'esilio. Un Sepúlveda apolide per 31 anni, fino a quando ad Amburgo, dove intanto si era stabilito, ebbe la cittadinanza tedesca, ma non ancora quella cilena (che ottenne a Madrid solo nel 2017!). «Avete idea cosa significhi essere apolide? - ripeteva spesso - andare negli uffici ogni tre mesi per rinnovare il passaporto, un passaporto che alle frontiere nessun poliziotto conosce e che ti fa finire ultimo negli aeroporti». Ma forse l'esilio è ciò che porta la lontananza a diventare parola. «La letteratura - diceva Luis - è stata per me non una condizione di rabbia ma un rifugio materno. Sono parte di un universo culturale enorme e vivo la letteratura come antidoto all'amnesia».

E proprio per combattere quella che lui chiamava “amnesia di Stato”, la cancellazione delle coscienze nell'età buia di Pinochet, egli, come scrittore comprometido, impegnato, faceva tesoro delle microstorie in cui sentire l'odore delle cose, delle persone, minatori, artigiani, casalinghe, contadini, piloti, poeti e scrittori amici e “maestri” (tra gli altri Neruda, Saramago, Tonino Guerra, Osvaldo Soriano) e persino amici animali, come scriveva in “Ingredienti per una vita di formidabili passioni” (Guanda, 2013).

Un romanzo, la vita stessa di Luis Sepúlveda, che non poteva che diventare un lungo racconto corale, un territorio pieno di vita e di relazioni umane, di storie di solidarietà e di diritto alla felicità, dell'importanza di “Vivere per qualcosa” (conversazione con José Mujica e Carlo Petrini, Slow food editori, 2017).

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