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Coronavirus, i classici ci mostrano la via: smascheriamo disuguaglianze e inganni del nostro mondo

Cosa ci può insegnare la letteratura in tempo di Coronavirus? Sarebbero tantissimi gli esempi da citare per dimostrare, come da anni sto cercando di fare, che i classici non si leggono per superare un esame o conseguire una laurea. E non mi riferisco solo alle opere in cui il tema della peste o di un’epidemia occupa una posizione centrale (si pensi, giusto per ricordare qualche celebre testo, alle vicende raccontate nell’”Edipo re” di Sofocle, nel “De rerum natura” di Lucrezio, nel “Decameron” di Boccaccio o, per arrivare al Novecento, nella “Peste” di Camus).

Qualsiasi grande classico ci aiuta a riflettere su questioni che riguardano la nostra vita e il mondo in cui viviamo.

Nell’ultima pagina del suo celebre romanzo, Camus ricorda ai suoi lettori le cose essenziali che si possono imparare «in mezzo ai flagelli»: si prende coscienza delle ingiustizie inflitte ai più deboli («il dottor Rieux decise allora di redigere il racconto […] per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e della violenza che gli erano state fatte») e, nello stesso tempo, si scopre «che ci sono negli uomini più cose da ammirare che non da disprezzare».

Ma il morbo non scompare con la fine dell’epidemia («il bacillo della peste non muore né scompare»), perché «può restare per decine di anni addormentato nei mobili e nella biancheria» aspettando «pazientemente nelle camere, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle cartacce».

Camus, insomma, ci invita a non dimenticare ciò che abbiamo vissuto e capito nell’esperienza drammatica della pandemia. E in queste settimane sono esplose contraddizioni con cui conviviamo da decenni: la sanità e l’istruzione (i due pilastri della dignità umana) stremate da tagli brutali, l’egoismo trionfante dei beceri nazionalismi nelle campagne elettorali in vari continenti, il rigurgito del razzismo e dell’antisemitismo, l’aumento costante delle disuguaglianze (l’1% della popolazione mondiale detiene l’80% della ricchezza), i danni delle politiche industriali fondate sulla delocalizzazione e sull’affidamento del monopolio della produzione esclusivamente a chi è in grado di offrire il prezzo più basso (è possibile che solo Cina e India debbano produrre mascherine?).

Diventeremo migliori solo se non dimenticheremo i limiti di un neoliberismo rapace che in nome della massimizzazione degli utili ha progressivamente cancellato la responsabilità sociale delle imprese, la solidarietà tra le nazioni e la fratellanza tra gli esseri umani. Il mito del mercato in grado di regolare ogni cosa è crollato di fronte all’assalto di un invisibile virus. E proprio per ricordare e coltivare i grandi valori della generosità e della pìetas abbiamo bisogno della letteratura e degli altri saperi considerati ingiustamente inutili perché non producono profitto (penso alla musica, alla filosofia, all’arte, alla scienza fondamentale).

Enea, nel secondo libro dell’Eneide, prende sulle spalle il vecchio padre Anchise mentre Troia è in fiamme. Un gesto “fondatore” in cui il futuro non può esistere senza il ruolo essenziale del passato, senza l’assunzione degli obblighi morali che abbiamo verso i nostri familiari e la comunità nella quale viviamo.

Questa è la forza della letteratura e della cultura. Un invito a non dimenticare, a non cancellare la nostra umanità. Una “sfida” che Milan Kundera è riuscito a racchiudere in un emblematico conflitto: «La lotta dell’uomo contro il potere è la lotta della memoria contro l’oblio».

Dimenticare, insomma, significa lasciare tutto come prima. O peggio di prima.

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