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I conti con l'oste, il romanzo di formazione di Tommaso Melilli

Tommaso Melilli è uno scrittore, un giornalista o uno chef? Ebbene, quando, qualche anno fa, chiesi a Julian Barnes che ruolo avesse avuto nell'evoluzione della sua scrittura l'esperienza giornalistica, mi rispose che avrei potuto capovolgere completamente la domanda: «In che misura lo scrivere romanzi ha influenzato il mio giornalismo? Posta in questi termini, la mia risposta sarebbe allora: la narrativa mi ha insegnato l'esigenza di stare a sentire punti di vista divergenti e l'importanza di un dialogo accurato».

Ecco, per rispondere alla domanda d'apertura, potremmo fare tesoro di quanto detto da Barnes e scoprire quanto siano interdipendenti e collegate strettamente fra loro le tre attività principali di Melilli: egli è sia un narratore che cucina, sia un cuoco che scrive articoli, sia un freelance che sforna… libri. Uno di quegli autori che non ha il vizio di stare ad ascoltare se stesso e basta - com'è di moda oggigiorno - ma che, al contrario, non fa che cibarsi dei suggerimenti, degli stimoli dell'altro. Dunque, dialogo e «punti di vista divergenti», come suggerisce Barnes, sono il suo pane quotidiano.

È questo, mi è parso, che fa Tommaso Melilli nel suo “I conti con l'oste” (Einaudi). Presta l'orecchio alla propria e alle altrui esigenze, visioni, suggestioni, rendendo in tal modo il suo stesso racconto esistenziale più fresco, più leggero e per paradosso più profondo. Il confronto fra le sue esperienze e quelle degli altri si pone, infatti, al centro di questo libro, che ha come sottotitolo: “Ritorno al paese delle tovaglie a quadretti”. Perché il protagonista di questo romanzo di formazione, Melilli stesso, dopo anni trascorsi a Parigi studiando letteratura e lavorando in piccoli bistrot e altri ristoranti del nord-est della capitale francese, decide di tornare in Italia. Con l'ambizione dichiarata di fare il cuoco, sì, ma anche con l'umiltà di imparare dagli altri cuochi. Portati per mano da lui, ne andremo allora a visitare parecchi, locali gestiti da grandi chef: dal “Santo Palato” romano di Sarah Cicolini al “Trippa” milanese di Diego Rossi, alle osterie “estemporanee” di Pierre Jancou, al “Reis” in Val Varaita di Juri Chiotti, senza trascurare il punto di riferimento, che rimane il “francese” Giovanni Passerini.

Luoghi segreti, le loro cucine, spesso luoghi “inaccessibili”, in cui grazie a Melilli abbiamo il privilegio d'entrare dalla porta di servizio. Cosa c'è di meglio? «L'eroe di questa storia - scrive Melilli - è ognuna delle tante persone, sono tante donne e tanti uomini, tanti ragazzi e ragazze, che - per un giorno o per tutta la vita - si sono sentiti l'oste di una casa aperta a tutti, dove si può entrare e sedersi a mangiare e bere. Avevo voglia di raccontare questo istinto che spinge ad accogliere le persone in quel modo lì, prima di tutto perché credo sia una cosa importante per tutti, e in secondo luogo perché, quell'istinto, ce l'ho anch'io».

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