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Ci tocca continuare a sognare, a sperare: nulla sarà più come prima

Sono basse le nuvole questa mattina. Dense, si allocano tra le collinette e costruiscono tanti piccoli laghi verso i paesi del Mesima, del Vibonese, della Piana. In fondo, sulla destra, il mare dello Stretto di Messina comincia ad aprirsi allo sguardo. Non ho dormito, questa notte, e non è una novità per chi da anni viaggia da fermo e gode del fuso orario dell’insonne, dell’inquieto. Prendo anche questa mattina la macchina fotografica e cerco di fissare questo paesaggio onirico, che, però, accompagna le mie veglie.

Da sempre, da decenni, da una vita, ho fissato e guardato, dal mio balcone, albe, tramonti, nuvole di mille colori. Nei giorni, nei mesi degli anni, nelle ore diverse del giorno, anche col buio della notte, il mio sguardo e anche il mio corpo sono diventati quasi dei luoghi naturali di quel paesaggio culturali. Non era sempre, anzi, tutto pacificato, bello, familiare. A volte, guardando oltre l’orizzonte e il mare, in fondo verso la Sicilia e l’Africa, avevo la sensazione e la certezza, quasi, di essere in esilio, straniero, errante proprio in quelle stanze che, anche quando avevo abbandonato e tradito, avevo continuato a sentire mie, familiari. Non è così, questa mattina, per la prima volta nella vita, in questo modo.

Il paesaggio, i paesi, il cielo, le stelle sono gli stessi, quelli che osservo, guardo, fotografo da anni nei miei viaggi “attorno alla mia camera” o nelle mie esplorazioni da fermo dei giorni e delle ore “normali”, ma è la mia percezione che è improvvisamente diversa, il mio sguardo sul mondo, il mio essere nel mondo. Il mio sentimento del luogo e del tempo che è improvvisamente mutato, i miei occhi e le mie palpitazioni, i miei ricordi e i miei sogni che sono evaporati, svaniti, sfarinati, diventati altri da sé come deve capitare, credo, a chi vive la fine del mondo, la fine di un mondo.

Non c’è nemmeno un’anima fuori e, come diceva un blog del paese, mai visto il paese così vuoto. Non è vero, perché il paese era vuoto da tempo, le sue case e le sue rughe chiuse, le porte e le finestre quasi cadenti e il paese era altrove, all’indietro, nelle mie nostalgie e nelle mie fantasie, al cimitero o a Toronto e nelle altre città del mondo dove negli ultimi sessant’anni avevano trovato lavoro, pane e fortuna quei paesani, che continuavano a sognare ritorno e non tornavano, a sistemare case che poi non aprivano, a non vendere le case cadenti perché, comunque, non si sa mai un giorno sarebbero potuti tornare e, magari, quelle case sarebbero state utili.

Chissà che non avessero ragione. Ed ecco che comincio a vedere in quel vasto e aperto paesaggio una storia di rovine e di macerie, di calamità e di catastrofi, che, in maniera paradossale, avevano reso così unico, bello, quel mondo dove pure i dolori non mancano. Vedo tutti quei paesi distrutti dai terremoti che si sono succeduti nel tempo: i luoghi dove sono sepolti villaggi, di cui non resta neppure il nome, cancellati dal terribile flagello del 1783. Lo specchio di mare, in fondo, accoglie le ombre dei palazzi di Messina e Reggio Calabria, rase al suolo, con migliaia di morti, dal terremoto del 1908. E prima ancora, nel 1905, un altro flagello che aveva impressionato tutta Europa. Ed ecco, coperte da nuvole bianche e azzurre, i resti e le rovine di strade e città magnogreche, di siti e chiese bizantine, di Rocca Angitola, abbandonata a fine Settecento, dove qualcuno voleva ubicata una città inesistente, Crissa, ma dove esistono resti che narrano il succedersi, il sovrapporsi, il combinarsi di civiltà, di dominatori, di stranieri. Una geografia tellurica, un paesaggio incantevole segnato da catastrofi e da Apocalissi. Là, a tre chilometri in linea d’aria, la grande voragine, la frana, di Maierato che pochi anni addietro ha quasi fatto crollare una parte dell’abitato.

Immagino, qualcuno lo vedo, i sentieri, i viottoli, le vie naturali e dei canti dei pellegrini, dei ciucciai, dei bovari che, per un tozzo di pane, per combattere la fame nera, partivano da buio a buio, faticavano un’intera giornata e non si saziavano mai di pane nemmeno di granturco. Noi obesi, avidi, ammalati di cibo, ricchi di spreco non abbiamo creduto ai loro patimenti. Li sento, li vedo, li ascolto, li rimpiango quegli uomini che avevano conosciuto fame, visto figli e familiari morire, sopportato soprusi e che ripetevano che il «peggio è arrede», l’ «assai è come il niente» e il «finimondo è vicino». Sembravano lamentosi, noiosi, vecchi e invece avevano il senso del limite, sapevano quanto costava un chilo di farina, capivano che era peccato fare cadere le molliche per terra. Ci siamo ubriacati e il mondo, dovunque, era lì davanti a noi a ricordarci che Dio lascia «fare ma non sopraffare», che la malattia, la vecchiaia (si era vecchi a 50 anni), la morte erano fatti naturali, normali. Torno di nuovo a bere un altro caffè, tanto di qualcosa, prima o poi, bisogna morire.

Qualsiasi cosa mi metta a scrivere, qualsiasi cosa scriveremo non potrà che guardare tutto il passato alla luce, o col buio, dell’oggi e che tutto diventa inattuale, superato, inadeguato giorno per giorno. «Dopo il coronavirus, nulla sarà più come prima». L’ho sentito ripetere, tante volte, nella mia vita, ma poi, pure cambiando sempre il mondo, l’Homo Sapiens si adatta a tutto, tutto dimentica e, in un certo senso, tutto torna come prima. Perché questo piccolo, fragile, spaventato animale, che cerca e immagina di diventare Dio, non può fermarsi, deve dimenticare, non rinuncia all’esercizio del dominio e del potere e, dinnanzi alle catastrofi, le sue magnifiche e sublimi costruzioni culturali e artistiche, la sua “razionalità” si sfarinano come polvere al sole.

Credo che, questa volta, davvero, «nulla sarà più come prima», ma non sono convinto che sarà meglio di prima. Quello che penso è che comunque quello che “scriveremo” da domani, da oggi, sarà sicuramente diverso da quello che abbiamo scritto o avremmo scritto prima. Non so se sarò in grado di inventare una scrittura per il dopo, non so nemmeno se ha senso. Forse arriveranno altre storie, altre riflessioni, memorie e diari per quelli che verranno. Provo a scrivere di Coronavirus e mi accorgo che le cose di cui mi sono occupato, il senso dei luoghi, le rovine, le apocalissi, le partenze, i ritorni, la nostalgia, la melanconia, il senso del tempo perduto, il sentimento del tutto accaduto – quanto ho pubblicato in libri, saggi, articoli e penso alla “trilogia” uscita proprio per la Donzelli – in realtà contengono molto di quanto oggi vedo, vivo, accade e mi accade.

L’Apocalisse e il senso della fine appartengono al mio pensiero, al mio vissuto. Albe, tramonti, nuvole, nebbie, pioggia, neve, rondini tornano, e sembrano indifferenti al nostro dolore, ai nostri lutti, ai nostri tormenti. Quasi a ricordarci, quasi con dispetto, che le stagioni, i colori dei giorni, le luci e le ombre dei mesi tornano anche quando noi non possiamo guardarli, non possiamo osservarli e che torneranno anche quando noi non ci saremo.

Esisteranno i luoghi, le case, le città, i pesi, le cose senza che nessuno le guardi? Forse no. Non dobbiamo dimenticare, però, che a guardare non siamo soltanto noi Sapiens (che anzi non abbiamo saputo guardare, abbiamo chiuso gli occhi, ci siamo condannati alla «cecità»). L'umanità ripeterà, in maniera diversa, gli stessi errori, non saprà (perché non può) fermarsi e lo farà soltanto dinnanzi a nuove paure e a nuove emergenze. Forse non abbiamo voluto vedere questa catastrofe annunciata, siamo stati colpiti da una «grande cecità». E forse non siamo più in grado di autoregolamentarci, di rinunciare a qualcosa, di fare a meno di quello stile di vita che ci sta portando verso il collasso.

L'uomo ha una «coazione a ripetere» che, passata la tempesta, bene o male, tornerà ad avere «dispregio» di nuovi possibili temporali. A guardare, senza di noi, ci sarebbero le rondini, gli uccelli, altre specie animali (quelle resistite alla distruzione del Sapiens) a cui questo pianeta, pure, appartiene e che – siamo crudi – continuerebbero a vivere, in qualche modo, ancora a lungo, anche senza di noi. Guardo fuori e mi pare che, attraverso il mio sguardo, continuino a guardare quelli di prima, a vedere il mondo, le sue bellezze, le sue rovine.

Un giorno, certo, non potrò più guardarle. Eppure sento che desidero, mi rasserena l’idea che, domani, qualcuno che appartiene alla mia famiglia, alla mia storia, a questa specie che magari imboccherà un’altra strada, potrà continuare a guardare per me. Non c’è altro da fare. Combattere contro la morte, per la vita. Cercare di essere un piccolo anello di congiunzione tra passato, presente e domani, tra un piccolo luogo e il pianeta, tra una stanza e il Cosmo. Mi tocca continuare a sognare, a sperare.

L'articolo nell'edizione di oggi della Gazzetta del Sud

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