Giallo, noir, poliziesco, hard boiled, thriller sono termini con cui vengono abitualmente indicati generi o sottogeneri narrativi che fanno, sì, a buon diritto parte della letteratura, ma ne sono spesso snobbati, come se fossero parenti meno nobili. E certo da Georges Simenon a Dashiell Hammett, da Raymond Chandler a Mickey Spillane, fino a Giorgio Scerbanenco e Michael Connelly, per fare qualche nome, nessuno metterebbe in dubbio che questi sono autori che non puoi relegare in un angolo meno blasonato della biblioteca. Ecco, Carlo Lucarelli appartiene innegabilmente a questa stirpe di scrittori. La sua non è una narrativa che può essere ridimensionata ed etichettata. Dall’ispettore Grazia Negro all’ispettore Coliandro, i suoi personaggi non scompaiono dopo la lettura del “giallo”, ma ti restano impressi nella memoria. Ma è quando Lucarelli decide di misurarsi col romanzo storico ch’egli dà il meglio di sé. Nessuno mi toglie dalla testa che sia in possesso di una macchina del tempo, grazie alla quale riesce a raccontarci del passato come se avesse davvero vissuto nei luoghi negli avvenimenti dell’epoca in cui ha scelto di ambientare la sua storia. Soprattutto nelle descrizioni dell’Italia durante il fascismo la sua precisione e la sua meticolosità, l’attenzione per i particolari, mi ricordano la stessa perizia artigianale che mette in mostra Cormac McCarthy nel suo leggendario “Meridiano di sangue”. Ed ecco che magicamente la storia, appunto, con la esse minuscola, si fonde – e trae insospettabile vigoria – dalla Storia con la maiuscola. Sto parlando dei romanzi che hanno per protagonista il commissario De Luca, romanzi, per l’appunto, che traggono vigoria narrativa dall’ambientazione: l’indagine poliziesca si svolge durante la Repubblica di Salò. Dopo la trilogia iniziale, scritta negli anni Novanta e composta da “Carta bianca”, “L’estate torbida” e “Via delle oche”, Lucarelli aveva abbandonato De Luca, ma recentemente ha sentito il bisogno di “rivolgersi” a lui, forse perché un caso risolto dall’investigatore repubblichino molto può rivelarci dell’epoca che stiamo vivendo. E così, dopo “Intrigo italiano” nel 2017 e “Peccato mortale” nel 2018, è appena uscito “L’inverno più nero” (Einaudi), romanzo che chiude idealmente la seconda trilogia che ha De Luca come personaggio principale. Il commissario De Luca è un poliziotto che, nonostante tutto, riesce a rimanere poliziotto negli anni bui e tetri di Salò. Ed è quello che cerca di fare anche questa volta, inquadrato com’è nella polizia politica di Salò e obbligato dall’interno di questa scomoda posizione a indagare sui responsabili di tre omicidi, per conto di tre committenti diversi e «con interessi contrastanti». Siamo nel 1944 a Bologna, in pieno centro, nella Speerzone, la Zona Chiusa: gli sfollati si accalcano sotto i portici e i soldati tedeschi rendono difficoltoso ogni movimento. È questo il contesto in cui si deve barcamenare De Luca per «rimettere a posto i pezzi di questo rompicapo a tre facce. C’è una manciata di indizi sparsi dappertutto che vanno rimessi in fila». La sequenza dei capitoli è scandita dai ritagli del “Resto del Carlino”, inserti di cronaca autentica del dicembre di quell’anno, che suggestivamente scandiscono come un metronomo i tempi della storia. «Alle 17:10, al primo calare del sole, il coprifuoco avrebbe trasformato il suk dentro le mura di Bologna in una città fantasma, accecata dall’oscuramento e muta, a parte gli scarponi delle pattuglie o quelli dei partigiani. Ma fino a quel momento, quella casbah fradicia e sporca, che scoppiava di voci rombando sorda come un treno in una galleria, brulicava di gente che cercava qualcosa, la neve, il burro, una sigaretta, un attimo in più per superare quello che per tutti, dall’inizio della guerra, forse da sempre, era l’inverno più ruvido e freddo. L’inverno più nero».