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Joyce Carol Oates racconta il seme della violenza

Joyce Carol Oates

Brucia l’America. Brucia la terra delle grandi opportunità, travolta dalla protesta di Minneapolis, scaturita dalla morte di George Floyd, sotto l’occhio delle telecamere che hanno ripreso la scena, scatenando la reazione della comunità afroamericana e lo sdegno dell’opinione pubblica, invocando giustizia contro la brutalità della polizia e la fine delle discriminazioni razziali.

Hollywood ci affascina e con i suoi racconti fatti di grandi storie e celebrità, ci illude che gli Stati Uniti siano solo questo ma in realtà, dietro i grattacieli, morde la provincia, gli stati del Sud che traggono il proprio benessere dall’agricoltura e dal petrolio ed è qui che si vincono le elezioni e albergano i grandi contrasti della nazione più ricca e potente al mondo che continua a non condannare apertamente il razzismo. Sono molti gli autori americani capaci di raccontare le contraddizioni di questo Paese e tra loro la scrittrice Joyce Carol Oates, 82 anni, lo ha fatto con costanza, libro dopo libro, senza mai deludere i lettori.

Nel corso della sua lunga e prolifica carriera – costellata di premi e bestseller, fra cui ricordiamo la tetralogia “Epopea americana”, “Acqua nera” e “Zombie” – ha spaziato in ogni genere letterario e nel suo nuovo romanzo, “Ho fatto la spia” (La Nave di Teseo, traduzione di Carlo Prosperi), torna prepotentemente sul tema raccontando di Violet Rue Kerrigan, la piccola di casa in una numerosa famiglia che vive in miseria nello stato di New York.

Una sera i suoi fratelli, Jerome Jr. e Lionel, investono un diciassettenne afroamericano, lo picchiano e lo lasciano agonizzante sulla strada. Violet assiste alla scena e nonostante tutti le intimino di tacere – compreso il prete – lei parlerà alla polizia. Una verità che le costerà il legame con la famiglia. Ripudiata, colpevole di aver tradito il proprio sangue, la sua vita precipiterà in un incubo: Violet è una vittima, che interiorizzerà però il senso di colpa delle vittime, quel “tradimento” del suo ambiente che non smetterà di perseguitarla. Ma Violet sopravviverà. “Ho fatto la spia” è un romanzo potente e decisamente attuale, con cui Joyce Carol Oates racconta il seme della violenza che può attecchire e contagiare chiunque. Autrice di oltre cento opere, la Gazzetta del Sud anticipa l’argomento del suo nuovo lavoro, “Night. Sleep. Death. The Stars”, in uscita il 9 giugno per HarperCollins negli Stati Uniti, «un'epopea della vita interiore fra mortalità e desiderio».

La sua Violet viene abusata e plagiata, fisicamente e mentalmente. Il padre, Jerome, è un uomo duro che insiste sulla lealtà a tutti i costi. Eppure, Violet sopravvive. Ha deliberatamente lasciato un filo di speranza?

«È molto frequente che i giovani sopravvivano agli abusi, non senza difficoltà, ma con sforzo. Nutro più di un barlume di speranza ma, come vediamo negli Stati Uniti proprio questa settimana, l'eredità del razzismo e l'incapacità di punire i razzisti coinvolti in crimini violenti di odio sono profondamente radicati nella nostra cultura. Violet compie una scelta radicale: osa ripudiare non solo i suoi fratelli colpevoli ma anche la cultura stessa, una cultura bianca che, pur non tollerando la violenza nei razzisti, non la punisce esplicitamente».

Violenza e speranza sono un connubio frequente nei suoi libri. Come mai?

«Vero, molti dei miei personaggi femminili si fanno strada attraverso un trauma di un tipo o di un altro, entrando nell’età adulta. Proprio come accade in “Ho fatto la spia”, la via d'uscita deve essere quella di rinunciare a cercare di riconciliarsi con il passato, scegliendo un futuro in cui non ti spetta più il ruolo della vittima».

Anche il razzismo e la disuguaglianza sociale sono temi costanti nelle sue opere. Il sogno americano è diventato un incubo?

«Il sogno americano è stato macchiato dalla corruzione e dalla cattiva politica nel corso dei decenni. Del resto, l'amministrazione di Donald Trump è la più estrema della storia, evidentemente allineata con i criminali reali. Ma non direi che il "sogno" stesso si sia tramutato in un incubo. Negli Stati Uniti, come in altri Paesi (ovviamente: non siamo eccezionali), è possibile raggiungere il “successo” in termini materiali, attraverso l'istruzione, l'industriosità e un pizzico di fortuna».

Guardando al passato, a suo avviso c’è stato un momento cruciale nella storia del Paese, una cesura che ha definito gli equilibri sociali?

«Sì. La vera competizione dell'evoluzione fu l'incubo del 19° secolo. Molti sono caduti lungo la strada, pochi hanno prosperato accumulando fortune e ciò è stato mitigato, in una certa misura, riscuotendo le tasse sul reddito e sulla proprietà».

Il Covid-19 sta stressando il sistema sanitario americano e il New York Times, per non dimenticare, ha dedicato la prima pagina del giornale alle vittime. Lei come sta vivendo il tempo della pandemia?

«È un momento angosciante che lascia sgomenti. Come altri miei conoscenti, mi sono “messa in quarantena”, vivo da sola in una casa a quattro miglia dalla città più vicina, con la sola compagnia di due “animali terapeutici” (due gattini). Ho terminato il mio periodo di insegnamento primaverile alla Princeton University mediante i corsi streaming con Zoom con grande soddisfazione. Cerco di uscire ogni giorno per fare una passeggiata o una corsa, a volte con gli amici, tenendoci rigorosamente “a distanza sociale”. Ma, ammetto, il mio lavoro è meno concentrato a causa di questa atmosfera di disordini e incertezza».

Le misure preventive del presidente Trump e Fauci la rincuorano?

«Trump non ispira fiducia a nessuno: la maggioranza degli elettori statunitensi non ha votato per lui, dobbiamo dirlo chiaramente. E adesso la frangia dei suoi oppositori è sempre più ampia. Ma sì, il dottor Fauci e i suoi collaboratori sono degli esperti e le misure che hanno approntato rincuorano».

Eppure, la sua routine creativa è sorprendente e lei è molto attiva anche su Twitter. Come fa a non dilapidare il suo tempo? Come riesce a non smarrirsi mentre si inseguono le storie?

«Vede, è tutta una questione di disciplina personale. Ma ci sono momenti di disordini sociali in cui è molto difficile per chiunque concentrarsi: le esigenze del mondo esterno sono intense».

Fra romanzi e racconti, lei ha scritto più di cento opere, indagando sulla società americana e sulla famiglia. Scrivere cosa significa per lei?

«Sono sempre incuriosita dall'esplorazione di argomenti per me nuovi. Spesso i miei romanzi si basano su vocazioni, attività, stili di vita diversi dai miei, come nel mio epico romanzo “Blonde” (Bompiani, traduzione di Sergio Claudio Perroni) che esplora in dettaglio la vita privata di Norma Jeane Baker, che è stata presentata al mondo come “Marilyn Monroe”. L'opportunità di scriverne implicava dover vedere tutti i film di Monroe in ordine cronologico. E così facendo ho imparato molto sulla vita di una star di Hollywood e ho potuto constatare che il suo talento come attrice e commediante passava in secondo piano, oscurato dalle luci della celebrità».

E adesso a cosa sta lavorando?

«Esploro la vita di una vedova, dopo la morte del marito e la dispersione della famiglia, oscillando fra la necessità di venire a patti con la mortalità e ricominciare a provare emozioni per un'altra persona. In qualche modo è un'epopea della vita interiore, si chiama “Notte. Dormire. Morte. Le stelle”».

Cosa si augura dal prossimo futuro?

«Molti di noi sperano che le prossime elezioni ricongiungano l'America alla sua identità, più genuina e idealista».

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