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Le cose scomparse dal mondo e noi, intorno, "diversamente" vivi

"Office in a Small City" di Edward Hopper

Scaldati dalle riflessioni, intorno alla vita “inanimata” - la più umana, potrebbe rivelarsi - di Massimo Mantellini in “Dieci splendidi oggetti morti” (Einaudi), ci domandiamo: è un valore, l'asincronia? E ancora: ci arricchisce, e in che misura, l'indeterminatezza? E, quanto al protetto mondo domestico, la disponibilità a essere disturbati - tra flagelli pubblicitari e quintali di “notifiche” - ci rende persone migliori? E la disattenzione?

Ai raggi X, Y e Z Mantellini passa i nostri ricordi e quelli che vieppiù avremo, e avranno i nostri (supponenti?) pronipoti. Radiografia arrembante e dai sapori nobilmente acerbi: vi riecheggiano gli albori della semiologia, tra Roland Barthes - citato - e Georges Mounin. Oggetti che indietreggiano e smuoiono, e - senza tante storie o con tante storie - dileguano. E il mondo, d'improvviso, ci appare diversamente vivo.

Le mappe, il telefono, la penna, la lettera, la macchina fotografica, i giornali, i dischi, i fili, il silenzio, il cielo. Queste le dieci iridescenti “entità” morte. In mezzo, spartiacque tra la resilienza e la necrofilia, «uno splendido oggetto vivo: il libro», uno dei «miracoli di una tecnologia eterna – scrive Umberto Eco – di cui fan parte la ruota, il coltello, il cucchiaio, il martello, la pentola, la bicicletta».

Ecco allora la nevrosi – che, manifesta o sottotraccia, accompagnava ogni consultazione di mappe – trovar pace, quantomeno rassicurante alienazione, nel Gps dell’auto. Peccato che non sia più dato, ai più fortunati fra noi, di perdersi, unico modo – eppure l’avevamo scoperto – di trovarsi davvero. Non ci è più dato, da soli, di orientarci, la direzione è passo passo disvelata, ogni senso dapprincipio ricompreso, “i giochi sono fatti” da che esiste il mondo, già tutto contenuto in una mappa “in sonno”, ora finalmente invocabile – come fosse il dio d’una qualunque fede – alla bisogna.

“Rinnegata”, quindi, l’asincronia. Abolito il “ritardo” (vediamo J.L. Borges, sullo sfondo) tra la mappa e le strade, sinistra-destra-sinistra, reali, ora quatte ora inerpicate. Abolito il “ritardo” tra la lettera e la lettura che se ne sarebbe fatta, tra lo scatto fotografico e l’immagine che ne sarebbe scaturita. Abolito soprattutto il “ritardo” tra la musica, immateriale per vocazione, e il “suo” disco.

Mai più distanze saranno percorse... a dorso di un cavallo. Forse non è un gran male, forse un po’ sì. La «spruzzata informativa» ottenuta con la giornaliera, o – peggio – occasionale, scorribanda sul web, ad esempio, non può sostituire – ammonisce Mantellini – il giornalismo vero, che sia su carta o altrove.

Ecco, pure, il non-telefono che serve-non più a combinar voci che di lontano s’avventurino a farsi l’una all’altra presente, ma a testimoniare l’artificioso in sé d’ogni ignaro possessore, che trova pungolo per ossigenarsi soltanto nel maneggiare una “finestra” – null’affatto squisita, spesso volgare – sul globo intero. Il non-telefono è la pietra tombale su ogni rete fissa e affissa a questo e a quel muro, certifica – sorprendentemente – la malattia cronica della comunicazione, tra balbettii e afasie. Che dire, poi, degli auricolari usati smodatamente? Se pure di natura “fluida”, vengono indossati come le maglie aderenti da un palestrato, servono a respingere l’esterno smarrendone, persino, la memoria: meglio rintanarsi in un’ovatta tranquillizzante e fuori portata, si corrono meno rischi. Per alcuni è una dipendenza, non sappiamo quanto tossica.

Resta il fatto che gli auricolari tradizionali, ancora in voga, sono gli unici “fili” sopravvissuti a un mondo che d’ogni pendula protesi fa a meno, mondo sempre più asessuato. Donne e uomini del Terzo millennio “hanno perso il filo” e se la godono in radiosa autonomia, disancorati e disincantati, fieri di tanto avveniristici e smaglianti progressi.

Che dire – ancora – dei bip, e può essere che abbiano denotazioni acustiche diverse, che ci frastagliano la vita? Qualcuno li accoglie soffrendoli, perturbato, nell’anima profonda, qualcun altro resta impermeabile. D’altra parte, il telefono – detto telefonino perché «tascabile» (progressivamente sempre meno) – è spontaneamente... interdisciplinare, tanto da aver sottratto la gran parte di noi a ogni attendibile applicazione di vita.

Ecco la macchina fotografica, colei che è – per Dna, per ostentata dichiarazione d’intenti – lo strumento più idoneo a riprodurre il reale là fuori. M’accosto al mondo, clicco, e dunque ogni reale può esistere ed è. Così immortalato perdurerà in eterno, ingiallirà – non è escluso – e ciò, persino, lo renderà persino più “vero”.

Ma che farmene della vecchia reflex se con il solito succitato telefonino posso catturare istanti, l’un dopo l’altro a costo zero, e inaugurare narrazioni a buon mercato di vite correnti e future, meglio e con più esaustivi esiti? La vecchia macchina può andare bell’e in pensione. Ché quello cui ambiamo è avere una sequenza di diligenti frammenti: non un’unità vogliamo – né di sguardo di qua, né di panoramica consapevolezza di là –, ma indeterminatezza, lo sfumato e il vago che arricchiscono il mondo che è in noi per sottrazione. Liquidata ogni qualità additiva della fotografia (in Luigi Ghirri permaneva eccome), valorizzati invece gli scatti “poveri” che favoriscono un rapido storytelling, foss’anche scalcinato. E il top è nel narcisismo dei selfie: autoritratti senza (e quindi con più) pretese.

Ecco, ancora, il silenzio. Di due tipi: silenzioso e – l’unico a noi familiare – rumoroso. Il primo, per quel che (non) ne sappiamo, è parente della fine del mondo. O del suo principio. C’è poi un silenzio di palpiti vivissimi, l’altro silenzio – il nostro –. Di terrestri, che apprestiamo contromisure allorché precipitiamo in un vuoto senza più alcuna eco né ritorni: recuperiamo i battiti oscuri che sfrigolano nel nostro corpo, i ripensamenti del sangue tra più in alto e il fondo, nient’affatto adagio. Lo “facciamo” perché il silenzio dei vivi c’è se almeno un qualche remoto incalcolabile rumore dà evidenza di sé. Percettibile appena dev’essere «quale mai, / però previsto, / l’avevamo udito» (straordinari versi di Giorgio Caproni, da “Il muro della terra”, 1975).

È scomparso e morto, il cielo, infine. Condannati siamo alla miseria d’un soffitto meno che opaco, senza manco una stella, ad aver sopra di noi tecnologie d’ogni presente e già futura specie. Il capo chino, è all’ingiù che oggi scrutiamo il mondo, gli occhi più o meno vitrei sullo smartphone d’ultima generazione.

«La cosa che cade in un abisso / cade da cielo a cielo» (Wislawa Szymborska, “Il cielo”, poesia – scritta forse a mano in compagnia del fantasma d’una penna... – da “Vista con granello di sabbia”). Da un’origine a un’altra: non è ciò di cui parla il bellissimo libro di Mantellini?

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