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Titos Patrikios: “I versi? Sono come i figli”

Titos Patrikios

«I versi sono come i figli. Crescono nelle viscere con rumori segreti, soffrono dentro di te, si ammalano, poi inaspettatamente crescono, finché poi se ne vanno per sempre e non sono più soltanto tuoi». E «scelgono, denunciano, sperano, cercano risposte a domande non ancora fatte», scrive Titos Patrikios, il più grande poeta greco vivente, erede di una tradizione illustre che va da Kavafis a Ritsos, da Kazantzakis a Seferis.

Patrikios, classe 1928, presente, tra molti altri poeti, nei Meridiani “Poeti Greci del Novecento” (2017, introduzione di Filippomaria Pontani, traduzione di Filippo Maria Pontani, Nicola Crocetti e Filippomaria Pontani), mantiene l’anima fanciulla dei poeti, dopo una vita di impegno e di esperienze asperrime: la Resistenza all’occupazione nazifascista e poi, quale militante comunista, durante la guerra civile negli anni Cinquanta, il campo di concentramento a Makrònesos e Aghios Efstratios, dove ebbe, tra gli altri, come compagno di detenzione, Ghiannis Ritsos.

E quindi, nella Grecia dei colonnelli, l’esilio a Parigi dove ha esercitato la professione di avvocato, sociologo e traduttore. Come poeta, il cui impegno politico, civile, memoriale convive con le istanze di cambiamento e con l’utopia di un mondo più giusto, ha ottenuto, tra gli altri, il Grand Prix national de la poésie (1992), il Premio Nazionale Greco di letteratura (1994) e il Premio dell’Accademia di Atene (2008).

Innamorato e amico dell’Italia (è stato anche a Messina), ha qui ricevuto nel 2004 l’onorificenza di Cavaliere della Repubblica dall’allora presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi, per il suo contributo allo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Grecia, e il prestigioso premio Lerici Pea (2013) sia per la sua lunga carriera poetica sia per la sua opera di traduttore in greco di grandi poeti e narratori mondiali (tra gli altri Spinoza, Stendhal, Balzac, Lukács, Valéry, Gogol’, Majakovskij, Neruda). Ha cantato la sconfitta e l’amore, Patrikios, e i suoi versi che si muovono tra mito e storia, tra passato e presente, tra discese negli inferi e luminose risalite attraverso vertigini di spazio e di tempo, testimoniano il valore della memoria come antidoto alla barbarie e all’orrore sempre incombenti.

Tra le sue raccolte “La Porta dei Leoni” (2002), “La resistenza dei fatti” (2007), “Amore che scioglie le membra” (2008), e la più recente raccolta di riflessioni “La tentazione della nostalgia. Appunti di quotidianità” (Palermo, 2018, edizioni Torri del Vento, traduzione di Vincenzo Rotolo). Patrikios che ha sempre vissuto la politica, la comunità, la poesia nei luoghi del syn, del cum, oggi vive l’emergenza coronavirus in casa. È blindata la sua Atene, dove vive e dove lo abbiamo raggiunto telefonicamente, l’Atene delle strade, delle piazze, della Plaka e dell’Acropoli affollate, dove si ama stare nell’agorà come nei tempi antichi, sorbire lentamente l’ouzo, giocare con il komboloi e con il tavli (il backammon greco), dove la pausa del caffè nei ritrovi all’aperto, come nelle librerie, è rito dello stare insieme e della socialità.

Titos, come vivi questo tempo di isolamento, tu che hai vissuto l’esperienza del campo di concentramento e l’esilio?

«Posso dire che per me non è una cosa straordinaria vivere isolato in casa. Ho conosciuto ben altro isolamento e non si possono per nessun motivo fare paragoni tra questo tempo e la prigionia, tra queste e altre tristi privazioni. A casa ci sono i libri, c’è la musica, c’è la Tv, posso parlare con i miei cari e con gli amici per telefono. Perciò non devo indignarmi se per un certo tempo devo osservare delle regole e non mi riesce difficile rinunciare alla mia libertà».

Appunto, la libertà. Per te che ami il sociale, che incontri gli amici tra librerie e reading, non sarà facile.

«Sì, mi manca tutto questo, ma, soprattutto, mi manca non poter vedere le mie figlie e le mie nipotine, eppure alcune volte è necessario per poter ricominciare. Bisogna ricominciare e lo dico nonostante la mia età».

Un poeta come vive questi giorni?

«Provo a ripensare le cose. Quando mi assale la solitudine, apro libri, sfoglio antologie e leggo molti poeti. Così trovo versi che mi danno forza, come quelli dell’ottava Pitica di Pindaro, due versi che sono i più forti mai scritti. Recitano: “Progenie d’un giorno! Che cosa noi siamo? Che cosa non siamo? È sogno d’un ombra il mortale”. E poi, “Ma pure, se luce gli piove dal Nume, fulgore con vita soave lo irradiano”. Sono versi citati da Leopardi nello Zibaldone, dove il poeta si chiede quale sia il ruolo del poeta moderno. Eppure quelle parole di Pindaro parlano della poesia come una condizione che avvicina gli uomini agli dei. Ma la grandezza della poesia è la comunicazione, la sua potenza è quella di farci comunicare non solo con gli altri, ma anche con noi stessi».

Titos, stai scrivendo versi in questi giorni?

«No, non sto scrivendo versi. Prendo nota, scrivo appunti. Per dopo».

I tuoi versi hanno sempre gridato contro vecchi e nuovi mostri. Non tanto contro i Minotauri, i Lestrigoni, ii Ciclopi, ma soprattutto contro i nuovi mostri di nuove tenebre. Chi sono oggi i mostri?

«Tra gli altri spauracchi che ci minacciano, tra gli inferni di nuovi regimi e di disoccupati, profughi, immigrati, oggi il nuovo mostro è il virus, un mostro che non ci aspettavamo, noi che abbiamo conosciuto persecutori e sicofanti, e quindi per questo motivo ancora più pericoloso. Un “mostro” per il quale non avevamo nessuna preparazione. Perciò le misure restrittive e provvisorie prese dal governo, che possono sembrare antidemocratiche, sono state necessarie. Hanno limitato la possibilità di muoversi, il contatto fisico (penso alla lunga liturgia delle cerimonie ortodosse della nostra Pasqua) ma non hanno limitato la possibilità di pensiero».

Cosa ci insegnano, se davvero è così, questi giorni?

«Ho sempre in mente Hegel, che diceva che l’unica cosa che ci insegna la storia è che non ci insegna niente. Io spero che ci insegnerà qualcosa ma la bellezza dell’essere umano è proprio il fatto che egli non apprende tutto da un’esperienza, perché così ha il margine di imparare ancora, di distinguere il falso dal vero. Sempre qualcosa deve rimanere non appresa. Solo così si salva la varietà e la ricchezza della vita».

Può servire la poesia in questi giorni? Può consolarci, salvarci?

«La sacralità della poesia stessa, dei poeti veri, non dei giullari, dei profeti e dei cortigiani, è bellezza condivisa e quindi psicologicamente, mentalmente, la poesia può salvarci, come quel raggio che, nei versi di Pindaro, rende più soave la vita. Ma nel senso fisico più stretto, no, non salva. Spero che riusciranno a trovare il vaccino, anche se non so se sarò vivo. Ma quello che deve, che può salvarci, è l’amore».

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