“Rileggere” il passato per capire com’è stato ridisegnato il mondo, nei momenti cruciali della storia, è esercizio validissimo anche per comprendere il ruolo (nefasto) delle logiche sovraniste e nazionaliste, che oggi ci preoccupano tanto e che hanno fatto pendere la bilancia a favore dell’una o l’altra sovranità sullo scacchiere internazionale, in determinati momenti. Una di queste occasioni storiche, forse la più importante, fu la conferenza di pace di Parigi con cui si mise la parola fine alla Grande Guerra.
Chi pensa che date e luoghi non servano a capire la storia, non si è mai misurato con la Conferenza di Parigi che chiuse il vortice di sangue, violenza e distruzione del primo conflitto mondiale. Da allora, cento anni fa, l’idea che dalla Conferenza di Parigi fosse uscita una pace iniqua e fosse svanito il sogno di un mondo più giusto ha tormentato tutti gli storici che hanno indagato l’ importante evento diplomatico. Aleggia, infatti, una ostinata “leggenda nera” su Versailles (Parigi). Come ha scritto Michael Neiberg in “The Treaty of Versailles” (Oxford University Press) furono sicuramente in molti a giungere nella capitale francese colmi di speranza, ma furono in pochi ad andarsene ottimisti.
Un libro dello storico Giovanni Bernardini, “Parigi 1919, la conferenza di pace” (Il Mulino, pagine 176, euro 13) mette ora, dopo un secolo, un punto fermo, perlomeno nelle dinamiche diplomatiche che hanno influito a ridisegnare la cartina dell’Europa e di parte del mondo; e ancor più sulle conseguenze che la conclusione ebbe nel medio e lungo periodo sull’ascesa del nazionalsocialismo e sulla crisi “permanente” del Medioriente.
Per raccontare la Conferenza, sfatando alcuni miti, e ricollocando la discussione nella sua giusta cornice, Bernardini segue un percorso che mette a fuoco episodi principali, ma anche dettagli, di una riunione in balia degli umori dei suoi protagonisti; spesso litigiosi “nazionalisti”, pronti a supportare le proprie richieste «con performance più attinenti al teatro che alla politica», dice Bernardini.
Uno dei nodi che impegnarono la Conferenza fu proprio la tensione fra l'esuberanza del nazionalismo e lo strumento scelto per contenerlo; cioè istituzioni sovranazionali, come la Società delle Nazioni, che nacque l’anno seguente alla fine della Conferenza. Se il sistema delle commissioni generò tensioni e dissidi, la deflagrazione che rischiò di travolgere l’intero impianto della Conferenza giunse quando fu scoperchiato il vaso di Pandora della definizione dei confini e delle identità nazionali.
Si trattava innanzitutto di dare forma politica a una vasta area dell’Europa e della sua «periferia» che, a seguito del crollo simultaneo di quattro imperi multinazionali, sperimentava un vuoto di sovranità senza precedenti in epoca moderna; ma più ancora delle soluzioni contingenti, era rilevante per il futuro la scelta dei principi ai quali i «grandi» si impegnavano ad attenersi.
Lo scontro tra nazionalismo e istituzioni sovranazionali, che continua ancora oggi a influenzare lo sviluppo delle democrazie occidentali, era il mezzogiorno di fuoco della Conferenza che, disse allora con efficace metafora il primo presidente cecoslovacco Tomáš Masaryk , fu «un grande laboratorio» del mondo che doveva ancora venire, posto però «su un immenso cimitero». In ogni angolo del mondo la crescita dei sacrifici umani e materiali aveva spinto le promesse dei governanti e le aspettative delle popolazioni a una rincorsa che sfuggiva al confronto con la realtà. Per tutti i leader coinvolti nelle trattative, di conseguenza, riportare a casa risultati insoddisfacenti per le rispettive popolazioni avrebbe significato quantomeno pregiudicare il proprio futuro politico, quando non la propria incolumità fisica. Bisognava alzare la posta. Nei casi più estremi la frustrazione poteva minare la legittimità degli assetti istituzionali, aprendo spazi imprevedibili, come a breve accadde con l’ascesa del fascismo in Italia.
Ci fu pure il convitato di pietra alla Conferenza di Parigi: la Russia, all’epoca ancora sconvolta dalla guerra civile tra il regime bolscevico in cerca di consolidamento e le forze “bianche” controrivoluzionarie, Che la Conferenza di Parigi 1919 potesse produrre risultati migliori è innegabile, conclude lo storico, ma che essa abbia fallito «nel realizzare il Paradiso in Terra», o che le sue conseguenze siano ancora alla radice degli attuali problemi internazionali, è una scorciatoia per un facile consenso degna dei peggiori demagoghi, tornati di recente a infestare l’Europa.
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